INTERVISTA A GUIDO PADUANO
Guido Paduano ha tradotto Le Supplici facendone una versione che il regista Moni Ovadia, quanto allo spirito eschileo, ha tenuto ben presente nel suo adattamento sebbene l’abbia totalmente trasfigurata. E’ della sua traduzione, nonché della tragedia, che il grecista toscano accetta di parlare.
Pelasgo non è un modello di umanitarismo. Accoglie le supplici quando capisce che sono di origini argive ma dà del barbaro all’araldo. Non è un po’ razzista?
Direi proprio di no. Pelasgo si pone innanzitutto il problema sociale del suo paese, che difende contro l’eventualità di una guerra che potrebbe essere rovinosa. Accetta tuttavia il rischio in nome dei valori legati all’istituto della supplica. Il fatto che le Danaidi siano argive è un argomento che loro usano per rafforzare la supplica ma non è il livello principale. Quanto a barbaro, è una parola che nel quinto secolo poteva venire usata senza nessuna intenzione spregiativa. Spregiativo è invece il loro comportamento. Sennonché i barbari egizi sono cugini delle Danaidi e quindi se sono argive le une sono anche gli altri. La pelle nera di cui si parla più volte è delle Danaidi come anche dei cugini, ma il carattere fazioso del testo, che si schiera nettamente a favore delle Danaidi, fa dimenticare questo aspetto. Però così stanno le cose.
Epperò Pelasgo accetta l’istanza delle Danaidi mentre agli Egizi rifiuta totalmente ospitalità ancorché l’araldo rivendichi lo stesso trattamento.
Pelasgo ribatte che non sono ospiti ma predatori dei templi, ancor più perché le Danaidi rafforzano la loro posizione con la richiesta di diritto d’asilo rivolta proprio ai templi: gli Egizi sono semplicemente degli invasori e la loro posizione nei confronti della donne è di chi cerca di perpetrare una violenza carnale. La vera forza di questo testo è appunto il modo in cui le Danaidi si ribellano alla violenza, perché afferma per la prima volta nella storia il diritto all’autodeterminazione della donna al matrimonio.
Lei osserva giustamente che anche gli Egizi sono di discendenza argiva, ma l’araldo si vanta di venerare i soli dèi che stanno nel Nilo mentre le Danaidi è proprio alle divinità argive che per prime si rivolgono sbarcate ad Argo.
La differenza è che loro sono le vittime mentre gli Egizi sono i carnefici. E’ una distinzione sulla quale ruota il testo e non può essere non tenuta presente.
Però alla fine, nella sua traduzione, il Coro si affida genericamente al dio. Quale dio? Dell’Olimpo o del Nilo?
E’ il dio che domina tutta la scena, il dio cui viene riconosciuto il valore di protettore dei supplici e anche degli ospiti e che è naturalmente Zeus.
Secondo lei è verosimile che le Danaidi chiedano al padre come tecnicamente si sia espresso il popolo? Parliamo di ragazzine barbare interessate a questioni costituzionali. Una vera rarità.
Ha ragione, tanto più che in realtà le donne barbare orientali, abituate a un governo dispotico, si meravigliano che Pelasgo ricorra all’assemblea perché sono abituate all’idea che il monarca sia totalmente artefice della politica del suo popolo. Anzi usano espressioni dell’assetto costituzionale ateniese quando dicono a Pelasgo che non è un magistrato soggetto a rendiconto. Ma da un lato Pelasgo non vuole assumersi da solo alcuna responsabilità mentre dall’altro le Danaidi sono preoccupate del ricorso al popolo. Una volta che Pelasgo stabilisce che il potere deliberante sta nel popolo, le Danaidi capiscono che è di altri la decisione e che l’esecutivo, diremmo oggi, ha presentato una mozione al parlamento con tutte le incognite del voto assembleare rispetto alla statuizione individuale.
Sarebbe normale che chiedessero come è andato il voto. Invece vogliono sapere come tecnicamente si è pronunciato il popolo.
E’ proprio lo stesso. Una volta appreso che il potere deliberante è dell’assemblea, le Danaidi chiedono come si è comportata la maggioranza, ricevendo la confortante notizia che il voto non è stato a maggioranza ma all’unanimità.
Lei fa dire alle Danaidi esattamente così: “Come si è orientata la maggioranza dell’assemeblea?”. In questo modo elide la frase “demou cratousa keir”. Perché?
Perché “cratusa” non vuol dire democrazia, ma indica la prevalenza del popolo. Non vuole significare una forma di Stato ma una maggioranza.
Ma c’è la parola “keir” che rimanda alla mano che poi vedremo vibrare nell’aria a migliaia.
E’ sbagliato tradurre “democrazia”. Punto.
Alla fine c’è l’apparizione di un secondo coro e lei sceglie che sia costituito non dalle guardie argive ma dalle ancelle delle Danaidi. Quindi abbiamo delle serve che discutono a tu per tu con le loro padrone.
E’ assolutamente comune nel teatro greco. Il caso più vicino è il servo di Ippolito che ricorda al suo signore che non deve trascurare Afrodite. Discutono da pari a pari.
Secondo lei in quale lingua discutono Pelasgo e gli stranieri?
E’ una convenzione di tutti i teatri del mondo quella per cui nel linguaggio del pubblico vengono fatti parlare anche quanti dovrebbero parlare un’altra lingua.
C’è un motivo perché non cita Belo, il padre di Danao ed Egitto? Forse per non appesantire un testo destinato al teatro?
Non ricordo, può anche darsi che sia stato un rifuso.
Lei traduce Themis non con la parola “giustizia” ma con “legge”…
Themis non significa giustizia. E’ una divinità che si preoccupa dell’equilibrio delle relazioni. Giustizia si dice “Dike”.
Che però è cosa ben diversa rispetto a Themis.
E’ infatti il motivo per non tradurre con “giustizia”.
In una delle tre occorrenze in cui figura Dike lei traduce “equo”, come nel caso in cui il Coro dice “Siate equi nei confronti di queste nozze”. Equità è sinonimo di giustizia e non di legge. Forse per questo Themis diventa “legge”.
Il concetto di equo deriva da una parola latina che equivale a giustizia.
La sua traduzione antiromagnolesca, in coerenza con i principi moderni, appare concepita per essere destinata al pubblico e non alla lettura discreta.
Su questa base io lavoro da quarant’anni e lavoro normalmente per il teatro.
Cosa pensa della possibilità di trasporre in dialetto un testo greco che cita nomi propri stranieri e appartiene a un’altra koiné? E’ un’operazione giustificabile?
In termini di regia, di adattamento teatrale, è giustificato quasi tutto, purché non venga tradito il messaggio originale del testo.