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Un sacrificio voluto dalla fede e dai poteri fortiUn sacrificio voluto dalla fede e dai poteri forti

da | Apr 20, 2015

LA TRAGEDIA CHE È UN GIOCO DELLE PARTI

di Gianni Bonina

Ifigenia diventa martire a causa del “terribile ardore di guerra” che, nelle parole di Achille a Clitennestra, invade l’Ellade. Il deinos eros, l’orrenda passione equivalente a una irrefrenabile febbre di conquista, è lo stesso demone che in Tucidide spinge gli Ateniesi a imbarcarsi nella sciagurata spedizione contro Siracusa, così come porta gli Achei sulla spiaggia di Troia al di là del mare. È una passione cieca e indomita, che dovrebbe essere soffocata mentre viene alimentata in omaggio a una dea, Artemide, protettrice dell’Aulide (come testimoniano alquante scoperte archeologiche) e certamente avversa a ogni forma di desiderio sfrenato che sia sessuale non meno che bellico. Eppure è Artemide che pretende, per il vaticinio di sacerdoti come Calcante, il sacrificio di Ifigenia: una incongruenza che trova spiegazione nella identificazione dell’eroina con una divinità affine ad Artemide. Quale? Esiodo la accosta ad Ecate, molte volte assimilata ad Artemide per le arti magiche, Ecate la negromante e simbolo di maleficio e influssi lunari: ipotesi tutt’altro che incompatibile, visto che Ifigenia diverrà nella Tauride una sacerdotessa di Artemide dedita a riti nefasti del tipo di quelli cui lei è sfuggita proprio grazie all’intervento della primordiale dea. Circostanza questa che gli Ateniesi conoscono bene dal momento che Ifigenia in Tauride precede di sei anni Ifigenia in Aulide e dunque è noto che la dea della verginità è, in coerenza con le sue epifanie, dalla parte della piccola vergine anziché costituire la sua più accanita giustiziera. Del resto la coscienza religiosa greca non può accettare che una ragazza priva di ogni colpa possa morire per volontà di una dea così venerata e benevola, per cui viene salvata anche se in circostanze volutamente fatte per rimanere confuse.

Non è dunque Artemide a volere la vita della figlia di Agamennone e Clitennestra e non è in fondo nemmeno il re di Micene, il quale risponde a un obbligo di fede e a un’istanza dell’esercito. Il vero carnefice è piuttosto il mare, anzi i mari che bagnano l’Aulide: il Golfo euboico e il Mare Egeo, separati dall’Istmo di Euripo che le calcidesi attraversano, fungendo da coro, per ammirare le navi achee e gli eroi che scalpitano in attesa di andare in guerra, ma solo dopo aver assistito alla morte di Ifigenia, condizione necessaria perché le acque smettano la bonaccia. Il mare è però diventato piatto, impossibile da navigare, fenomeno che avviene solo dopo l’arrivo delle navi in Aulide, perché sappiamo da Agamennone che i Greci si sono “avventati per mare in armi” fino allo Stretto. Giunti qui – e giunti solo via mare – sono incappati nell’impedimento di riprendere il largo perché il mare richiede i suoi riti estremi. Non è casuale dunque che il riferimento al mare sia costante in tutta la tragedia: anche con esiti contraddittori e di  inverosimiglianza. Il coro delle calcidiche, nella traduzione di Guidorizzi, accosta le rive sabbiose dell’Aulide al mare che le percuote, ma adesso non più giacché le donne arrivano per vedere da vicino i semidei greci quando le acque sono diventate immobili e tuttavia attraversano comunque lo Stretto; Clitennestra evoca la dea marina che ha generato Achille e chiede ad Agamennone se le nozze dei genitori, Teti e Peleo, siano state celebrate in fondo al mare; ancora Achille “sopra i ciottoli lungo la riva del mare vola rapidissimo tutto coperto d’armi”: stati appunto di irrealtà, spiegabili entro il clima di devozione che aleggia sul mare, ipostasi di una divinità che è tutta terrena, materiale, reificata e inesorabile com’è nello spirito della tragedia, spunto inusuale questo nell’Euripide successivo al 410 quando i suoi drammi assumono quasi tutti un lieto fine. E del resto anche Ifigenia in Aulide non conta morti.

Non è dunque il cielo a volere tutto questo – né che scoppi una guerra o che una fanciulla sia sgozzata sull’ara – perché per Euripide gli dei sono indifferenti alle sorti dei mortali e quando intervengono, come in questa tragedia nel caso della cerva montanina finale, sono circonfusi nell’indistinto. Le vicende umane sono dunque terrene ed è perciò nella sfera degli Achei che occorre cercare i carnefici di Ifigenia. In questa chiave la presenza ricorrente del mare costituisce un’indicazione precisa a trasferire dal cielo alla terra vicende e destini del tutto umani. Euripide offre chiare tracce in questa direzione additando la casta dei sacerdoti e i poteri forti greci incarnati da Ulisse: sono essi a stringere un patto scellerato a danno del potere politico rappresentato da Agamennone e Menelao e allo scopo, imperialistico e tornacontistico, di annettere nuovi territori muovendo guerra a Troia. Il rapimento di Elena è solo il casus belli della spedizione troiana e del raduno degli eserciti greci in Aulide, perché la guerra non scoppia che in forza del giuramento panellenico di Tindaro, il padre di Elena al quale tutti i re greci, pretendenti della bellissima figlia, avevano promesso di soccorrere il futuro marito nel caso in cui la regina fosse stata rapita. Una specie di alleanza Nato si mette dunque in moto per attaccare una potenza barbara sulla base di un pretesto che di per sé certamente non vale una guerra né il sacrificio di una principessa, ma che basta a giustificare una passione che è alla base della guerra così come del rapimento di Elena.

È Ulisse, che non appare mai sulla scena, al pari di un “grande vecchio”, la mente del piano, il faccendiere che porta Agamennone, attraverso Menelao, a scrivere a Clitennestra perché conduca la figlia Ifigenia in Aulide, promessa sposa di Achille. L’ipotesi nasce da quanto riferisce Agamennone, secondo il quale fu il fratello a convincerlo “con mille argomenti”. Facile sorprendere in tale multiforme opera di persuasione l’astuzia di Ulisse come lo conosciamo. Un uomo temibile, tanto che Agamennone cede all’ineluttabilità della profezia nel timore che possa sobillare l’esercito se viene meno al sacrificio. Ulisse, che guida le guardie a prelevare con la forza Ifigenia, è forse il “nessuno” cui Euripide si riferisce, echeggiando Omero, quando Menelao dice ad Agamennone che “nessuno” lo ha costretto a scrivere la lettera, quasi intendendo addensare proprio su Ulisse un sospetto di responsabilità. E che sia lui a compulsare Menelao ce lo suggerisce lo stesso Euripide nel momento in cui il re offeso da Paride propone di uccidere Calcante ma tace su Ulisse che evidentemente intende tutelare. Il nome di Ulisse è fatto dopotutto dallo stesso Agamennone quando rivela come a conoscenza delle false nozze della figlia sia proprio lui oltre al fratello Menelao e all’indovino Calcante. Nemmeno Achille, seppur coinvolto, viene messo a parte della terribile necessità: un martirio che lega politica, religione e potere deviato in una congiura trasversale di Stato. Né peraltro Achille – talmente anch’egli teme Ulisse, giacché nel mito scopre che è stato lui e non il padre a servirsi del suo nome per ingannare Ifigenia – gli  si mette contro, limitandosi a minacciare soltanto Calcante e il re. Con il quale tuttavia Euripide fa trovare un punto di condivisione con Omero laddove l’eroe dice nell’Ade di voler rinascere come comune mortale e Agamennone, elogiando la mesotes, la mediocrità, dice al Vecchio di reputarlo felice perché vive ignoto e senza fama mentre infelice è chi gode di ogni onore.

È proprio l’onore, o meglio l’ambizione per l’onore, il philotimon, a indurre Agamennone ad anteporre il generale in cerca di gloria, gravido dei suoi orpelli davanti all’esercito e agli altri re, al padre vuoto di affetto nei confronti della figlia e della moglie. Il culto del prestigio personale avvicina Agamennone all’Eteocle delle Fenicie, dove la madre cerca di mettere il figlio in guardia dalle insidie della philotimia. Ma nello stesso tempo il suo ripensamento lo assimila a Creonte delle stesse Fenicie e a Demofonte degli Eraclidi, esempi in cui viene minata la tradizione del padre immolatore e infine assassino. Entro questi estremi si svolge una tragedia che per certi versi appare una sorta di commedia degli equivoci dominata dal malinteso: non ci sono dialoghi nei quali non si insinui l’incomprensione, la dissimulazione, l’ipocrisia e il disinganno. L’equivoco maggiore si ha alla fine quando il messaggero racconta il mancato sacrificio di Ifigenia e si serve del verbo protelizo che significa proprio in Euripide consacrare con una cerimonia prima delle nozze. L’autore indica un’azione che manca del suo requisito, le nozze, ma che si rifà a una promessa tradita: un fine virtuosismo linguistico e un gioco di immagini, appunto di equivoci, che Guidorizzi traduce cambiando l’espressione “consacrano ad Artemide” con “presentano ad Artemide”, così aggirando lo scivoloso ostacolo. Anche Ettore Romagnoli scelse questa soluzione, che però forse non rende le sfumature volute da Euripide.

Oltre ad essere una girandola di equivoci la tragedia si caratterizza per il gioco delle parti che innesca: Ifigenia cambia parere nel giro di pochi minuti, Agamennone si ricrede dal proposito di sacrificarla ma poi si conferma nell’intento preso in partenza, Menelao passa dalla più tenace determinazione circa il sacrificio alla più molle tenerezza riguardo alla nipote, Achille si infiamma di ira e giura vendetta senonché si rabbonisce e recede da ogni proposito, Clitennestra si dispera per la figlia ma alla fine ne comprende le ragioni di martire. Tutti questi mutamenti repentini e improbabili di personalità spinsero Aristotele a giudicare non riuscita la tragedia, che però in tempi moderni ha conquistato considerazione fino a essere definita la più bella del teatro francese nella versione di Racine, la cui Ifigenia si salva mentre al suo posto viene uccisa la schiava Erifile.

Ifigenia si salva anche in Euripide mentre è stata uccisa nell’Agamennone di Eschilo. Questa seconda versione del mito, che avvalora il sentimento di vendetta di Artemide per un torto subito da Agamennone, si fa strada in funzione di una coscienza laica che stranamente alberga più in Eschilo che in Euripide, seppure in questo sentiamo Clitennestra dire: “Non credo che gli dèi siano così folli da accettare che si auguri il bene a un assassino” e soprattutto tali parole: “Se gli dei non esistono a che serve la nostra sofferenza?”. È un’invocazione del tutto vana nella versione a noi giunta di Ifigenia in Aulide euripidea dove la ragazza s’invola in una nube lasciando l’ara a una cerva, nonché ancor più nell’Agamennone eschileo, ma è una preghiera accorata che trova esaudimento in una probabile stesura precedente, un Ur-text originale, quando si accettasse il carattere spurio dell’esodo e dell’angelikos logos (il racconto finale del messaggero), più l’ipotesi che Artemide deus ex machina interviene per salvare la fanciulla, come l’angelo mandato dal Dio ebreo per sottrarre Isacco al coltello di Abramo. La coscienza laica che pervade parte della tragedia greca e in particolare questa sottende un modello di fondamentalismo basato sulla superstizione e l’ordalia che ritroviamo in epoca romana quando Lucrezio nel suo De rerum natura quasi all’inizio cita Ifigenia, chiamata Ifianasse, come esempio di delitto cui può giungere l’integralismo religioso: “Sacrilega spesso per l’antica religione umana, da cui nacquero fatti scellerati: tanto che gli eroi della Grecia, eletta schiera di uomini, macchiarono in Aulide la bianca ara di Trivia col sangue di Ifianasse”.

Scellerati sono invero i fatti che riguardano gli Atridi. In questa tragedia per la prima volta si dà conto degli assassinii di Agamennone, responsabile dell’uccisione del primo marito di Clitennestra e del loro figlioletto. In tal senso Ifigenia in Aulide si definisce in opposizione a Le Supplici di Eschilo il cui tema è la richiesta di asilo politico in nome di una concezione religiosa che supera le diversità etniche in vista dell’affermazione di una pacifica conciliazione, mentre in Euripide la religione diventa fanatismo da utilizzare in una prospettiva non soterica ma bellica, per modo che la tragedia di Ifigenia, la ragazza che non si immola per il padre ma per la patria, si fa rappresentazione della credenza più bieca e più vieta.

Votandosi volontariamente al sacrificio, Ifigenia persegue il bene panellenico e finisce, a tale scopo, per sostenere le stesse ragioni del padre: il favore dell’esercito e l’interesse dello Stato, così trovando in questa identificazione il principio giustificativo di un gesto che la rende eroina, come oggi lo sarebbe una ragazza palestinese o jihadista che si faccia esplodere guadagnando i meriti della martire. È una religione primitiva, entro la cui logica Achille protesta perché Agamennone non gli ha detto delle false nozze utili agli scopi bellici, altrimenti non si sarebbe certo rifiutato di mettere la moglie nelle mani degli indovini, sebbene in tal caso Artemide non avrebbe avuto più immolata una vergine ma una donna non pura. Ma è una religione arcaica per la quale Clitennestra, nel cuore della tragedia, chiede quale demone maledetto trascina il marito, quale alastos perpetua l’incessante vendetta. Sembra di sentire Eschilo ed invece è Euripide che abbiamo. Un Euripide ormai svuotato di slancio che guarda anche all’epica. Ancora da Omero, precisamente dall’Odissea, ha copiato lo spunto in cui Clitennestra, volendo parlare al marito dei suoi mali, non sa da dove cominciare: “Dall’inizio, dal mezzo o dalla fine?”, proprio come Omero in apertura del suo racconto.

Una questione a parte è l’uso del termine xenos, oggi inteso come straniero ma in realtà nato per indicare l’amico non ancora entrato a fare parte della cerchia parentale, dunque intraducibile in italiano. Senonché xenos significa estraneo mentre Clitennestra e Ifigenia si rivolgono entrambe ad Achille con l’invocazione “O xene” benché egli sia di Ftia in Tessaglia e quindi greco. Il termine in realtà si definisce in rapporto a philos che sta per amico mentre polites, cittadino, sta in rapporto con barbaros, che vuol dire estraneo: per modo che si distinguono una sfera privata alla quale appartiene lo xenos e una pubblica dove lo straniero è chiamato barbaros. I grecisti italiani non tengono però conto di queste sfumature e lasciano che il prode e greco Achille sia ritenuto alla fine un barbaro.

Tragedia della dismisura, disequilibrata nella definizione dei caratteri, Ifigenia in Aulide si affida a un canone molto moderno, di resa cinematografica, nell’allestimento della suspence e del colpo di scena, motivi di interesse che furono evidentemente anche degli Ateniesi, i quali nelle tragedie cui assistevano vedevano sì impegnativi momenti di rappresentazione politica relativi alla città ma anche e innanzitutto uno spettacolo di cui godere e per cui divertirsi secondo i criteri fondamentali posti da Aristotele della pietà e della paura.LA TRAGEDIA CHE È UN GIOCO DELLE PARTI

di Gianni Bonina

Ifigenia diventa martire a causa del “terribile ardore di guerra” che, nelle parole di Achille a Clitennestra, invade l’Ellade. Il deinos eros, l’orrenda passione equivalente a una irrefrenabile febbre di conquista, è lo stesso demone che in Tucidide spinge gli Ateniesi a imbarcarsi nella sciagurata spedizione contro Siracusa, così come porta gli Achei sulla spiaggia di Troia al di là del mare. È una passione cieca e indomita, che dovrebbe essere soffocata mentre viene alimentata in omaggio a una dea, Artemide, protettrice dell’Aulide (come testimoniano alquante scoperte archeologiche) e certamente avversa a ogni forma di desiderio sfrenato che sia sessuale non meno che bellico. Eppure è Artemide che pretende, per il vaticinio di sacerdoti come Calcante, il sacrificio di Ifigenia: una incongruenza che trova spiegazione nella identificazione dell’eroina con una divinità affine ad Artemide. Quale? Esiodo la accosta ad Ecate, molte volte assimilata ad Artemide per le arti magiche, Ecate la negromante e simbolo di maleficio e influssi lunari: ipotesi tutt’altro che incompatibile, visto che Ifigenia diverrà nella Tauride una sacerdotessa di Artemide dedita a riti nefasti del tipo di quelli cui lei è sfuggita proprio grazie all’intervento della primordiale dea. Circostanza questa che gli Ateniesi conoscono bene dal momento che Ifigenia in Tauride precede di sei anni Ifigenia in Aulide e dunque è noto che la dea della verginità è, in coerenza con le sue epifanie, dalla parte della piccola vergine anziché costituire la sua più accanita giustiziera. Del resto la coscienza religiosa greca non può accettare che una ragazza priva di ogni colpa possa morire per volontà di una dea così venerata e benevola, per cui viene salvata anche se in circostanze volutamente fatte per rimanere confuse.

Non è dunque Artemide a volere la vita della figlia di Agamennone e Clitennestra e non è in fondo nemmeno il re di Micene, il quale risponde a un obbligo di fede e a un’istanza dell’esercito. Il vero carnefice è piuttosto il mare, anzi i mari che bagnano l’Aulide: il Golfo euboico e il Mare Egeo, separati dall’Istmo di Euripo che le calcidesi attraversano, fungendo da coro, per ammirare le navi achee e gli eroi che scalpitano in attesa di andare in guerra, ma solo dopo aver assistito alla morte di Ifigenia, condizione necessaria perché le acque smettano la bonaccia. Il mare è però diventato piatto, impossibile da navigare, fenomeno che avviene solo dopo l’arrivo delle navi in Aulide, perché sappiamo da Agamennone che i Greci si sono “avventati per mare in armi” fino allo Stretto. Giunti qui – e giunti solo via mare – sono incappati nell’impedimento di riprendere il largo perché il mare richiede i suoi riti estremi. Non è casuale dunque che il riferimento al mare sia costante in tutta la tragedia: anche con esiti contraddittori e di  inverosimiglianza. Il coro delle calcidiche, nella traduzione di Guidorizzi, accosta le rive sabbiose dell’Aulide al mare che le percuote, ma adesso non più giacché le donne arrivano per vedere da vicino i semidei greci quando le acque sono diventate immobili e tuttavia attraversano comunque lo Stretto; Clitennestra evoca la dea marina che ha generato Achille e chiede ad Agamennone se le nozze dei genitori, Teti e Peleo, siano state celebrate in fondo al mare; ancora Achille “sopra i ciottoli lungo la riva del mare vola rapidissimo tutto coperto d’armi”: stati appunto di irrealtà, spiegabili entro il clima di devozione che aleggia sul mare, ipostasi di una divinità che è tutta terrena, materiale, reificata e inesorabile com’è nello spirito della tragedia, spunto inusuale questo nell’Euripide successivo al 410 quando i suoi drammi assumono quasi tutti un lieto fine. E del resto anche Ifigenia in Aulide non conta morti.

Non è dunque il cielo a volere tutto questo – né che scoppi una guerra o che una fanciulla sia sgozzata sull’ara – perché per Euripide gli dei sono indifferenti alle sorti dei mortali e quando intervengono, come in questa tragedia nel caso della cerva montanina finale, sono circonfusi nell’indistinto. Le vicende umane sono dunque terrene ed è perciò nella sfera degli Achei che occorre cercare i carnefici di Ifigenia. In questa chiave la presenza ricorrente del mare costituisce un’indicazione precisa a trasferire dal cielo alla terra vicende e destini del tutto umani. Euripide offre chiare tracce in questa direzione additando la casta dei sacerdoti e i poteri forti greci incarnati da Ulisse: sono essi a stringere un patto scellerato a danno del potere politico rappresentato da Agamennone e Menelao e allo scopo, imperialistico e tornacontistico, di annettere nuovi territori muovendo guerra a Troia. Il rapimento di Elena è solo il casus belli della spedizione troiana e del raduno degli eserciti greci in Aulide, perché la guerra non scoppia che in forza del giuramento panellenico di Tindaro, il padre di Elena al quale tutti i re greci, pretendenti della bellissima figlia, avevano promesso di soccorrere il futuro marito nel caso in cui la regina fosse stata rapita. Una specie di alleanza Nato si mette dunque in moto per attaccare una potenza barbara sulla base di un pretesto che di per sé certamente non vale una guerra né il sacrificio di una principessa, ma che basta a giustificare una passione che è alla base della guerra così come del rapimento di Elena.

È Ulisse, che non appare mai sulla scena, al pari di un “grande vecchio”, la mente del piano, il faccendiere che porta Agamennone, attraverso Menelao, a scrivere a Clitennestra perché conduca la figlia Ifigenia in Aulide, promessa sposa di Achille. L’ipotesi nasce da quanto riferisce Agamennone, secondo il quale fu il fratello a convincerlo “con mille argomenti”. Facile sorprendere in tale multiforme opera di persuasione l’astuzia di Ulisse come lo conosciamo. Un uomo temibile, tanto che Agamennone cede all’ineluttabilità della profezia nel timore che possa sobillare l’esercito se viene meno al sacrificio. Ulisse, che guida le guardie a prelevare con la forza Ifigenia, è forse il “nessuno” cui Euripide si riferisce, echeggiando Omero, quando Menelao dice ad Agamennone che “nessuno” lo ha costretto a scrivere la lettera, quasi intendendo addensare proprio su Ulisse un sospetto di responsabilità. E che sia lui a compulsare Menelao ce lo suggerisce lo stesso Euripide nel momento in cui il re offeso da Paride propone di uccidere Calcante ma tace su Ulisse che evidentemente intende tutelare. Il nome di Ulisse è fatto dopotutto dallo stesso Agamennone quando rivela come a conoscenza delle false nozze della figlia sia proprio lui oltre al fratello Menelao e all’indovino Calcante. Nemmeno Achille, seppur coinvolto, viene messo a parte della terribile necessità: un martirio che lega politica, religione e potere deviato in una congiura trasversale di Stato. Né peraltro Achille – talmente anch’egli teme Ulisse, giacché nel mito scopre che è stato lui e non il padre a servirsi del suo nome per ingannare Ifigenia – gli  si mette contro, limitandosi a minacciare soltanto Calcante e il re. Con il quale tuttavia Euripide fa trovare un punto di condivisione con Omero laddove l’eroe dice nell’Ade di voler rinascere come comune mortale e Agamennone, elogiando la mesotes, la mediocrità, dice al Vecchio di reputarlo felice perché vive ignoto e senza fama mentre infelice è chi gode di ogni onore.

È proprio l’onore, o meglio l’ambizione per l’onore, il philotimon, a indurre Agamennone ad anteporre il generale in cerca di gloria, gravido dei suoi orpelli davanti all’esercito e agli altri re, al padre vuoto di affetto nei confronti della figlia e della moglie. Il culto del prestigio personale avvicina Agamennone all’Eteocle delle Fenicie, dove la madre cerca di mettere il figlio in guardia dalle insidie della philotimia. Ma nello stesso tempo il suo ripensamento lo assimila a Creonte delle stesse Fenicie e a Demofonte degli Eraclidi, esempi in cui viene minata la tradizione del padre immolatore e infine assassino. Entro questi estremi si svolge una tragedia che per certi versi appare una sorta di commedia degli equivoci dominata dal malinteso: non ci sono dialoghi nei quali non si insinui l’incomprensione, la dissimulazione, l’ipocrisia e il disinganno. L’equivoco maggiore si ha alla fine quando il messaggero racconta il mancato sacrificio di Ifigenia e si serve del verbo protelizo che significa proprio in Euripide consacrare con una cerimonia prima delle nozze. L’autore indica un’azione che manca del suo requisito, le nozze, ma che si rifà a una promessa tradita: un fine virtuosismo linguistico e un gioco di immagini, appunto di equivoci, che Guidorizzi traduce cambiando l’espressione “consacrano ad Artemide” con “presentano ad Artemide”, così aggirando lo scivoloso ostacolo. Anche Ettore Romagnoli scelse questa soluzione, che però forse non rende le sfumature volute da Euripide.

Oltre ad essere una girandola di equivoci la tragedia si caratterizza per il gioco delle parti che innesca: Ifigenia cambia parere nel giro di pochi minuti, Agamennone si ricrede dal proposito di sacrificarla ma poi si conferma nell’intento preso in partenza, Menelao passa dalla più tenace determinazione circa il sacrificio alla più molle tenerezza riguardo alla nipote, Achille si infiamma di ira e giura vendetta senonché si rabbonisce e recede da ogni proposito, Clitennestra si dispera per la figlia ma alla fine ne comprende le ragioni di martire. Tutti questi mutamenti repentini e improbabili di personalità spinsero Aristotele a giudicare non riuscita la tragedia, che però in tempi moderni ha conquistato considerazione fino a essere definita la più bella del teatro francese nella versione di Racine, la cui Ifigenia si salva mentre al suo posto viene uccisa la schiava Erifile.

Ifigenia si salva anche in Euripide mentre è stata uccisa nell’Agamennone di Eschilo. Questa seconda versione del mito, che avvalora il sentimento di vendetta di Artemide per un torto subito da Agamennone, si fa strada in funzione di una coscienza laica che stranamente alberga più in Eschilo che in Euripide, seppure in questo sentiamo Clitennestra dire: “Non credo che gli dèi siano così folli da accettare che si auguri il bene a un assassino” e soprattutto tali parole: “Se gli dei non esistono a che serve la nostra sofferenza?”. È un’invocazione del tutto vana nella versione a noi giunta di Ifigenia in Aulide euripidea dove la ragazza s’invola in una nube lasciando l’ara a una cerva, nonché ancor più nell’Agamennone eschileo, ma è una preghiera accorata che trova esaudimento in una probabile stesura precedente, un Ur-text originale, quando si accettasse il carattere spurio dell’esodo e dell’angelikos logos (il racconto finale del messaggero), più l’ipotesi che Artemide deus ex machina interviene per salvare la fanciulla, come l’angelo mandato dal Dio ebreo per sottrarre Isacco al coltello di Abramo. La coscienza laica che pervade parte della tragedia greca e in particolare questa sottende un modello di fondamentalismo basato sulla superstizione e l’ordalia che ritroviamo in epoca romana quando Lucrezio nel suo De rerum natura quasi all’inizio cita Ifigenia, chiamata Ifianasse, come esempio di delitto cui può giungere l’integralismo religioso: “Sacrilega spesso per l’antica religione umana, da cui nacquero fatti scellerati: tanto che gli eroi della Grecia, eletta schiera di uomini, macchiarono in Aulide la bianca ara di Trivia col sangue di Ifianasse”.

Scellerati sono invero i fatti che riguardano gli Atridi. In questa tragedia per la prima volta si dà conto degli assassinii di Agamennone, responsabile dell’uccisione del primo marito di Clitennestra e del loro figlioletto. In tal senso Ifigenia in Aulide si definisce in opposizione a Le Supplici di Eschilo il cui tema è la richiesta di asilo politico in nome di una concezione religiosa che supera le diversità etniche in vista dell’affermazione di una pacifica conciliazione, mentre in Euripide la religione diventa fanatismo da utilizzare in una prospettiva non soterica ma bellica, per modo che la tragedia di Ifigenia, la ragazza che non si immola per il padre ma per la patria, si fa rappresentazione della credenza più bieca e più vieta.

Votandosi volontariamente al sacrificio, Ifigenia persegue il bene panellenico e finisce, a tale scopo, per sostenere le stesse ragioni del padre: il favore dell’esercito e l’interesse dello Stato, così trovando in questa identificazione il principio giustificativo di un gesto che la rende eroina, come oggi lo sarebbe una ragazza palestinese o jihadista che si faccia esplodere guadagnando i meriti della martire. È una religione primitiva, entro la cui logica Achille protesta perché Agamennone non gli ha detto delle false nozze utili agli scopi bellici, altrimenti non si sarebbe certo rifiutato di mettere la moglie nelle mani degli indovini, sebbene in tal caso Artemide non avrebbe avuto più immolata una vergine ma una donna non pura. Ma è una religione arcaica per la quale Clitennestra, nel cuore della tragedia, chiede quale demone maledetto trascina il marito, quale alastos perpetua l’incessante vendetta. Sembra di sentire Eschilo ed invece è Euripide che abbiamo. Un Euripide ormai svuotato di slancio che guarda anche all’epica. Ancora da Omero, precisamente dall’Odissea, ha copiato lo spunto in cui Clitennestra, volendo parlare al marito dei suoi mali, non sa da dove cominciare: “Dall’inizio, dal mezzo o dalla fine?”, proprio come Omero in apertura del suo racconto.

Una questione a parte è l’uso del termine xenos, oggi inteso come straniero ma in realtà nato per indicare l’amico non ancora entrato a fare parte della cerchia parentale, dunque intraducibile in italiano. Senonché xenos significa estraneo mentre Clitennestra e Ifigenia si rivolgono entrambe ad Achille con l’invocazione “O xene” benché egli sia di Ftia in Tessaglia e quindi greco. Il termine in realtà si definisce in rapporto a philos che sta per amico mentre polites, cittadino, sta in rapporto con barbaros, che vuol dire estraneo: per modo che si distinguono una sfera privata alla quale appartiene lo xenos e una pubblica dove lo straniero è chiamato barbaros. I grecisti italiani non tengono però conto di queste sfumature e lasciano che il prode e greco Achille sia ritenuto alla fine un barbaro.

Tragedia della dismisura, disequilibrata nella definizione dei caratteri, Ifigenia in Aulide si affida a un canone molto moderno, di resa cinematografica, nell’allestimento della suspence e del colpo di scena, motivi di interesse che furono evidentemente anche degli Ateniesi, i quali nelle tragedie cui assistevano vedevano sì impegnativi momenti di rappresentazione politica relativi alla città ma anche e innanzitutto uno spettacolo di cui godere e per cui divertirsi secondo i criteri fondamentali posti da Aristotele della pietà e della paura.

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