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Moni Ovadia: “La mia tragedia greca è siciliana”Moni Ovadia: “La mia tragedia greca è siciliana”

da | Apr 20, 2015

INTERVISTA AL REGISTA DE “LE SUPPLICI”

Moni Ovadia, regista de Le Supplici e interprete di Pelasgo, ama molto Andrea Camilleri che scrive perlopiù in un siciliano borghese e comprensibile. Questo forse gli ha dato il coraggio di concepire la tragedia eschilea in gran parte recitata in siciliano. A contribuire massimamente all’esperimento linguistico è stato in veste di aiuto regista l’ennese Mario Incudine, cantante, musicista, insegnante di recitazione, per il quale Ovadia ha parole di assoluto affetto e di grande stima: “E’ un genio. Pensi che a nove anni recitava ai cortei funebri. Gran parte dell’operazione che stiamo mettendo in scena è merito suo. Sarà anche sulla scena come nunzio, anche se il testo non lo prevede. Racconterà tutta la storia come farebbe un cantastorie.»

In siciliano quindi. Ma perché ha pensato a questo tipo di pronuncia?

C’è una ragione. In omaggio a Eschilo che ha lavorato in Sicilia al punto da guadagnarsi il titolo di “antropos sikelos”. Ma non sarà una recitazione, quanto una resa in musica, una cantata. Saranno Supplici musicali, nei ritmi del cuntu come anche nei metri greci e nei modi musicali greci.

Greco moderno o antico?

Moderno. Una scelta politica per quanto succede oggi e per ricordare che noi pensiamo greco, perché tutto il nostro apparato concettuale è di derivazione greca. Abbiamo umiliato la nostra origine, una sciagura dal punto di vista simbolico. E allora vogliamo dire che la Grecia di oggi è la Grecia viva che viene dalla Grecia di allora che era viva.

E’ dunque bastato solo Eschilo per indurla a scegliere il siciliano?

Da sempre lavoro con lingue diverse e so bene che prima di significare qualcosa la lingua è sonorità, unica e ineffabile. Le Supplici sono una tragedia corale, un insieme di energie che nascono dalla determinazione, dalla paura, dalla rivolta, dal senso di sofferenza e ingiustizia che si contrappone a un mondo prevaricatore e tracotante. Ora, l’italiano è una lingua assai bella, ma secondo me poco adatta ad esprimere la violenza. Non è un caso se agli stranieri sembra di sentire cantare. C’è un detto francese che dice “si sputa il tedesco, si vomita l’inglese, si parla il francese e si canta l’italiano”. Che è una lingua con l’accento tonico sempre allo stesso posto, non ha aspirate né gutturali, mentre noi avevamo bisogno di una lingua che esprimesse la forza di energie pronte a liberarsi: e non c’è dubbio che i dialetti siciliani sono un’apoteosi di sapori, succhi, colori, umori…

Ma quanto è presente il dialetto?

Moltissimo. La tragedia è in siciliano e in greco moderno, due lingue che si giustappongono e sovrappongono.

E stridono.

Niente affatto. Ecco, vede, occorre rivedere il nostro modo di relazionarci con le lingue, un modo che deriva ancora dalla cultura occidentocentrica, la quale è scritta e non orale. Dobbiamo piuttosto chiederci come parlavano i greci, che voci avevano e da questo cercare di capire che queste lingue portano anche i travagli di duemila anni di storia. Al greco è subentrata la koiné bizantina, poi c’è stato l’esperimento della tutela inglese quando la borghesia si chiese se dovesse parlare una lingua considerata di popolo per cui la lingua venne purificata. Senonché la lingua di popolo è semplicemente sublime perché porta dentro di sé i segni della dominazione turca, tutti  i barbarismi, tutto il cosmopolitismo levantino. E’ una lingua grandiosa, multanime, dove trovi parole veneziane, slave, turche, una lingua che porta tutto il Mediterraneo in sé, quindi anche la Sicilia.

Ascolteremo un sabir rifatto in pasta ovadiana dunque.

E’ questione di sonorità e di proprietà. In un mio spettacolo ho letto poesie di Ignazio Buttitta che traducevo in italiano e mi rendevo conto, io come gli altri, che una cosa è dire “mi vergogno” e un’altra “m’affruntu”. L’italiano è una lingua meravigliosa ma noi dovevamo trovare una materia linguistico-sonora che rispondesse all’energia della tragedia.

Ma rispetto alla traduzione di Paduano che tradimenti ci sono stati?

Il tradimento è stato totale. Il professore Paduano ha fatto una traduzione che per noi è stata fonte di studio e di conoscenza. Ci siamo abbeverati alla sua traduzione. Ma noi siamo teatranti e artisti. Trasfiguriamo e ne abbiamo la piena libertà. Prendiamo il caso di Marc Chagall: conosceva il mondo ebraico fino a viverlo e sapeva che gli ebrei dei piccoli villaggi non volavano, eppure li ha raffigurati meglio che dei fotografi. Prendiamo la Rimini di Fellini: non è certamente quella reale. Allo stesso modo noi trasfiguriamo il testo filologico prendendoci la massima libertà e responsabilità.

Non teme di peccare di hybris?

No, perché l’intento è il teatro, che è la massima espressione di verità. Dico questo: Shakespeare pare che non abbia scritto niente di vero, tutto inventato; ma forse che i suoi re siano nati da una lettura filologica? E’ Shakespeare e basta. Noi siamo dei piccoli epigoni del teatro del Novecento fondato da Mejerchol’d, Craig e poi Grotowski, Kane, che hanno liberato il testo non solo come poesia ed emozione ma dalla tirannia. Quanto a me, io sono un epigono di Tadeusz Kantor, uno dei grandi della scena del Novecento. Ero suo amico, mi voleva molto bene. In una leggendaria conferenza stampa un giornalista francese gli disse che amava molto giocare con i testi nel senso che li modificava e Kantor rispose che ci giocava sì, ma insieme. Ora quelle che portiamo al teatro greco non sono Le Supplici di Eschilo un genio assoluto che purtroppo non c’è più. Sono Le Supplici di musicanti e teatranti che giocano insieme con l’autore, lo percuotono, gli vanno incontro, cercano di distillarne verità che forse non ci sono ma potrebbero esserci. Pelasgo che dice che non può decidere senza prima aver avuto il voto del popolo si pronuncerà con queste parole: “Sugnu cu sugnu, ma nun cuntu nenti. Ca dicidi la me genti”. Lo traduca lei in italiano in termini di altrettanta potenza.

Impossibile.

“Sugnu cu sugnu”: sente la forza? Incudine ha avuto un’intuizione poderosa a rendere in questo modo la presa di posizione del re. C’è poi la violenza dei mafiosi che sono i cugini egizi. E cosa dice l’araldo? “Picciotte, vi scipp’i capiddi”. In siciliano ci sono espressioni che non possono valere anche in italiano. Prenda il detto più famoso del linguaggio mafioso: “cumannari è meggh’i futtiri”. Ti schiaccia. In italiano non funziona.

Come l’ha presa Paduano, il traduttore?

Parliamo di un grande grecista il cui sapere è nella sua traduzione. Penso che l’abbia presa molto serenamente, perché l’operazione che facciamo non è certo contro di lui. Grande traduzione la sua, però poi c’è l’opera. Noi abbiamo letto e studiato, ma da artisti. Facciamo l’esempio di Picasso: quante tauromachie ha visto e quanto ha tradito la realtà? Ma Picasso è Picasso. L’artista deve essere se stesso e se non fa operazioni che esprimano la sua poetica va incontro alle convenzioni.

Si rende conto di lavorare a un vero e proprio azzardo? Quale pensa che potrà essere la reazione del pubblico?

Spero che viva la nostra proposta, non per forza che l’approvi. Sa, non c’è teoresi in teatro. Il teatro è quello che succede sulla scena e basta. Si dice che nel teatro di Kantor non ci sono attori. E’ vero, non ci sono nel senso della formazione teatrale. In La classe morta vediamo personaggi di tutti i tipi che fanno cose insensate e uno può dire “ma è scemo questo?”, “che porcheria è questa?”, eppure almeno duecento critici lo hanno definito il più grande spettacolo del Novecento. Il teatro è follia. Che succede quando al teatro di Parma Carmelo Bene arriva al famoso monologo dell’Amleto con il pubblico che rumoreggia davanti a sei teatranti sgarrupati? Si accendono le luci della sala e un attore gli dice “Complimenti, attacco perfetto”, quindi rivolto al pubblico “Signori, si accomodino al bar, ci sono bibite e tramezzini”: manda fuori il pubblico e il monologo viene recitato durante l’intervallo. Grandioso! Grandioso perché il teatro del Novecento ha ribaltato tutto. Pensiamo a cosa ha fatto Peter Brook che pure era il più grande regista scespiriano del secolo: ha rovesciato tutto con il teatro antropologico e barbaro. Noi veniamo da quel mondo. Come posso dirle? Se va a sentire un concerto jazz deve sapere che è jazz. Io ammiro il teatro di prosa, Ronconi, Strehler, ma non mi commuove. Lo rispetto ma non mi dà emozione. Io sono stato portato a teatro da Carmelo Bene, Kantor, Grotowski, e le dico che le più grandi cose le ha fatte Scaldati. Se si esclude la Duse, i più grandi successi internazionali non sono state opere in lingua ma Arlecchino servitore di due padroni in veneziano, Eduardo De Filippo e Dario Fo inventore di una lingua neoruzantiana.

Ma se anziché a Siracusa Le Supplici fossero state destinate al teatro di Verona, avrebbe adottato lo scaligero?

Per niente. Io il siciliano lo porto dappertutto. Vede, non vogliamo compiacere il pubblico siracusano, anche perché il nostro dialetto non è quello aretuseo. L’araldo dice “picciotte” come a Palermo e non “caruse” come a Siracusa. L’esempio di Camilleri: usa il dialetto siciliano perché riconosce in esso una forza che l’italiano non può dargli. Facciamo un esperimento? Prendiamo qualcuno, facciamogli leggere in italiano un brano del coro de Le Supplici, poi lo portiamo al bar e io gli chiedo “allora, cosa ha detto il coro?”

Probabilmente non lo ricorda. Così abbiamo che dall’alta poesia di Romagnoli si passa, sempre al teatro greco di Siracusa, al dialetto siciliano di Ovadia.

Perché no? Il teatro è libertà e verità. Non ha paura di niente. Shakespeare non è stato capace di mettere il buffo nella tragedia? Il buffo sta col buffo in teoria, ma abbiamo visto che può stare anche col tragico. E chi ha fatto questo? Il figlio di un guantaio!

Come sarà re Pelasgo nei panni di Ovadia?

Sarà una recitazione a lingua doppia. siciliano e greco simultaneamente, con un  battimento musicale. Poi salirà il siciliano da solo. Un’operazione sperimentale. Mi ritrovo molto in Pelasgo. E’ un uomo pieno di dubbi. “Che io faccia o non faccia, l’esito sarà doloroso” dice. Ha una consapevolezza dolorosissima, ma alla fine prevale in lui la decisione di affrontare anche la guerra pur di non mettere in discussione l’ideale della libertà.

In fondo le assomiglia.

Pensi a quanti dubbi mi ha procurato la questione israelo-palestinese. Io posso essere ebreo, ma sto dalla parte degli oppressi. Ho una sola patria: non è l’Italia, non è Israele, ma i diseredati e i giusti. Non negozierò mai questo.

Secondo me lei avrebbe ospitato anche i cugini egiziani oltre alle supplici, buoni e cattivi.

Io credo questo: nella Torah è detto “amerai il prossimo tuo come te stesso”. Non viene collocato il prossimo, non si dice buono o cattivo, né giallo o bianco. Vale un altro credo: se tu sei colpevole la giustizia ti deve condannare, ma la dignità non te la toglieremo mai. Anche Totò Riina non può essere privato della condizione di essere umano, come anche lo sguardo che lo osserva non può essere uno sguardo truce.

Allora vieni a parlarmi, ma se ciò che mi chiedi è un’ingiustizia ti dico no. La grande lezione de Le Supplici è declinata come giustizia. Pelasgo dice all’araldo: “Vuoi venire anche tu qui? Vieni in pace. Vuoi convincere queste donne a tornare dove ci sono uomini che le aspettano e che vogliono amarle? Sei il benvenuto. Ma se le vuoi prendere contro la loro volontà allora non te tocchi”. Siamo ancora oggi di fronte a questo grande problema del rifiuto posto 2500 anni fa ad Argo: come fare a uscire fuori dalla negazione che siamo una sola umanità. Eppure la Bibbia ce l’ha spiegato con la parabola del fratello che uccide l’altro. E cosa fa il buon Dio? Manda Caino sulla terra, non lo uccide.

Lo manda in esilio.

No, perché Caino e Abele sono già fuori dal Paradiso. Dio manda Caino a capire che l’accoglienza dell’altro è il nodo dell’esistenza stessa. E’ il malvagio che deve andarci perché è lui che deve capire. Non so come dire: padre Alex Zanotelli capisce benissimo questa verità, ma la grande vittoria sarà quando la capirà Matteo Salvini.

C’è un punto nella tragedia in cui sembra sovrapporsi un secondo coro. Lei come ha risolto questa lacuna?

In realtà il passaggio sembra affidato all’arbitrio. Perciò quel che abbiamo fatto è arbitrario: Inducine entra come narratore, una specie di deus ex machina.

Non c’è nel testo. Questo vuol dire che ha tradito non solo Paduano ma anche Eschilo.

Assolutamente. Incudine racconta tutta la storia e lo fa in un siciliano molto arioso. La gente sa già quello che vedrà. Del resto la trama è quattro cose: quelle che vengono e chiedono rifugio in nome di Giove, l’altro che ha paura di una guerra, tituba, alla fine deve fare una scelta e arrivano gli egizi. Nella nostra lettura c’è invece a questo punto (esclusa la sorpresa finale che non le dico) una scena violentissima che è come la camera della morte dei tonni, con le reti, come per i gladiatori. Quindi arriva Pelasgo e si congela la scena delle reti. “Cosa sei venuto a fare?” chiede. “Sono qui legittimamente” risponde l’araldo. E Pelasgo comincerà a parlare in greco per finire in dialetto con l’ingiungere: “Vatìnni luntanu di ca”. Vattene lontano da qui.

Il rischio è che gli spettatori siciliani rispondano come quelli di Montelepre del film Salvatore Giuliano di Rosi che, riconoscendosi, scoppiarono in sonore risate. La tragedia finirebbe in farsa.

Forse succederà. Magari qualche scolaresca farà camurrìa. Ma se succederà è perché la lingua siciliana induce a volgere il dramma in riso restando comunque dramma. C’è un detto che dice “Cu tuttu ca sugnu orbu a viru niura”: fa ridere ma è amarissimo. E c’è in Sciascia quell’altra battuta di chi a Racalmuto va a votare e dice al presidente del seggio porgendogli la busta elettorale: “Ci sputassi vossia”: il massimo del disincanto, eppure provoca una risata.

Dove ha imparato così bene il siciliano?

A Milano avevo nella casa di ringhiera dove vivevo un vicino che era siciliano e mi parlava sempre in dialetto. Il mio primo amico fu messinese quando arrivai dalla Bulgaria. E poi sono stato molto amico di Ignazio Buttitta.

Ama dunque molto la Sicilia?

Follemente. Mi sconvolge e mi fa male perché vorrei vederla capitale del Mediterraneo. Qui vorrei che si firmasse la pace tra palestinesi e israeliani perché è l’unico paese mediorientale a non aver fatto guerra contro Israele. La Sicilia è stata la sola colonia spagnola che cercò di bloccare l’espulsione degli ebrei nel 1492. Furono pronunciate tre suppliche a palazzo Steri a Palermo che io ho recitato nel 1992, nel cinquecentenario. In una i siciliani chiedono al vicerè di non credere alle accuse rivolte agli ebrei ma che se non può evitare di espellerli quantomeno che procrastini la decisione: “perché, vostra eccellenza, sono così miseri, così infelici”. Gli unici, i siciliani, a vedere gli ebrei come esseri umani. Come posso non amare i siciliani?

INTERVISTA AL REGISTA DE “LE SUPPLICI”

Moni Ovadia, regista de Le Supplici e interprete di Pelasgo, ama molto Andrea Camilleri che scrive perlopiù in un siciliano borghese e comprensibile. Questo forse gli ha dato il coraggio di concepire la tragedia eschilea in gran parte recitata in siciliano. A contribuire massimamente all’esperimento linguistico è stato in veste di aiuto regista l’ennese Mario Incudine, cantante, musicista, insegnante di recitazione, per il quale Ovadia ha parole di assoluto affetto e di grande stima: “E’ un genio. Pensi che a nove anni recitava ai cortei funebri. Gran parte dell’operazione che stiamo mettendo in scena è merito suo. Sarà anche sulla scena come nunzio, anche se il testo non lo prevede. Racconterà tutta la storia come farebbe un cantastorie.»

In siciliano quindi. Ma perché ha pensato a questo tipo di pronuncia?

C’è una ragione. In omaggio a Eschilo che ha lavorato in Sicilia al punto da guadagnarsi il titolo di “antropos sikelos”. Ma non sarà una recitazione, quanto una resa in musica, una cantata. Saranno Supplici musicali, nei ritmi del cuntu come anche nei metri greci e nei modi musicali greci.

Greco moderno o antico?

Moderno. Una scelta politica per quanto succede oggi e per ricordare che noi pensiamo greco, perché tutto il nostro apparato concettuale è di derivazione greca. Abbiamo umiliato la nostra origine, una sciagura dal punto di vista simbolico. E allora vogliamo dire che la Grecia di oggi è la Grecia viva che viene dalla Grecia di allora che era viva.

E’ dunque bastato solo Eschilo per indurla a scegliere il siciliano?

Da sempre lavoro con lingue diverse e so bene che prima di significare qualcosa la lingua è sonorità, unica e ineffabile. Le Supplici sono una tragedia corale, un insieme di energie che nascono dalla determinazione, dalla paura, dalla rivolta, dal senso di sofferenza e ingiustizia che si contrappone a un mondo prevaricatore e tracotante. Ora, l’italiano è una lingua assai bella, ma secondo me poco adatta ad esprimere la violenza. Non è un caso se agli stranieri sembra di sentire cantare. C’è un detto francese che dice “si sputa il tedesco, si vomita l’inglese, si parla il francese e si canta l’italiano”. Che è una lingua con l’accento tonico sempre allo stesso posto, non ha aspirate né gutturali, mentre noi avevamo bisogno di una lingua che esprimesse la forza di energie pronte a liberarsi: e non c’è dubbio che i dialetti siciliani sono un’apoteosi di sapori, succhi, colori, umori…

Ma quanto è presente il dialetto?

Moltissimo. La tragedia è in siciliano e in greco moderno, due lingue che si giustappongono e sovrappongono.

E stridono.

Niente affatto. Ecco, vede, occorre rivedere il nostro modo di relazionarci con le lingue, un modo che deriva ancora dalla cultura occidentocentrica, la quale è scritta e non orale. Dobbiamo piuttosto chiederci come parlavano i greci, che voci avevano e da questo cercare di capire che queste lingue portano anche i travagli di duemila anni di storia. Al greco è subentrata la koiné bizantina, poi c’è stato l’esperimento della tutela inglese quando la borghesia si chiese se dovesse parlare una lingua considerata di popolo per cui la lingua venne purificata. Senonché la lingua di popolo è semplicemente sublime perché porta dentro di sé i segni della dominazione turca, tutti  i barbarismi, tutto il cosmopolitismo levantino. E’ una lingua grandiosa, multanime, dove trovi parole veneziane, slave, turche, una lingua che porta tutto il Mediterraneo in sé, quindi anche la Sicilia.

Ascolteremo un sabir rifatto in pasta ovadiana dunque.

E’ questione di sonorità e di proprietà. In un mio spettacolo ho letto poesie di Ignazio Buttitta che traducevo in italiano e mi rendevo conto, io come gli altri, che una cosa è dire “mi vergogno” e un’altra “m’affruntu”. L’italiano è una lingua meravigliosa ma noi dovevamo trovare una materia linguistico-sonora che rispondesse all’energia della tragedia.

Ma rispetto alla traduzione di Paduano che tradimenti ci sono stati?

Il tradimento è stato totale. Il professore Paduano ha fatto una traduzione che per noi è stata fonte di studio e di conoscenza. Ci siamo abbeverati alla sua traduzione. Ma noi siamo teatranti e artisti. Trasfiguriamo e ne abbiamo la piena libertà. Prendiamo il caso di Marc Chagall: conosceva il mondo ebraico fino a viverlo e sapeva che gli ebrei dei piccoli villaggi non volavano, eppure li ha raffigurati meglio che dei fotografi. Prendiamo la Rimini di Fellini: non è certamente quella reale. Allo stesso modo noi trasfiguriamo il testo filologico prendendoci la massima libertà e responsabilità.

Non teme di peccare di hybris?

No, perché l’intento è il teatro, che è la massima espressione di verità. Dico questo: Shakespeare pare che non abbia scritto niente di vero, tutto inventato; ma forse che i suoi re siano nati da una lettura filologica? E’ Shakespeare e basta. Noi siamo dei piccoli epigoni del teatro del Novecento fondato da Mejerchol’d, Craig e poi Grotowski, Kane, che hanno liberato il testo non solo come poesia ed emozione ma dalla tirannia. Quanto a me, io sono un epigono di Tadeusz Kantor, uno dei grandi della scena del Novecento. Ero suo amico, mi voleva molto bene. In una leggendaria conferenza stampa un giornalista francese gli disse che amava molto giocare con i testi nel senso che li modificava e Kantor rispose che ci giocava sì, ma insieme. Ora quelle che portiamo al teatro greco non sono Le Supplici di Euripide, un genio assoluto che purtroppo non c’è più. Sono Le Supplici di musicanti e teatranti che giocano insieme con l’autore, lo percuotono, gli vanno incontro, cercano di distillarne verità che forse non ci sono ma potrebbero esserci. Pelasgo che dice che non può decidere senza prima aver avuto il voto del popolo si pronuncerà con queste parole: “Sugnu cu sugnu, ma nun cuntu nenti. Ca dicidi la me genti”. Lo traduca lei in italiano in termini di altrettanta potenza.

Impossibile.

“Sugnu cu sugnu”: sente la forza? Incudine ha avuto un’intuizione poderosa a rendere in questo modo la presa di posizione del re. C’è poi la violenza dei mafiosi che sono i cugini egizi. E cosa dice l’araldo? “Picciotte, vi scipp’i capiddi”. In siciliano ci sono espressioni che non possono valere anche in italiano. Prenda il detto più famoso del linguaggio mafioso: “cumannari è meggh’i futtiri”. Ti schiaccia. In italiano non funziona.

Come l’ha presa Paduano, il traduttore?

Parliamo di un grande grecista il cui sapere è nella sua traduzione. Penso che l’abbia presa molto serenamente, perché l’operazione che facciamo non è certo contro di lui. Grande traduzione la sua, però poi c’è l’opera. Noi abbiamo letto e studiato, ma da artisti. Facciamo l’esempio di Picasso: quante tauromachie ha visto e quanto ha tradito la realtà? Ma Picasso è Picasso. L’artista deve essere se stesso e se non fa operazioni che esprimano la sua poetica va incontro alle convenzioni.

Si rende conto di lavorare a un vero e proprio azzardo? Quale pensa che potrà essere la reazione del pubblico?

Spero che viva la nostra proposta, non per forza che l’approvi. Sa, non c’è teoresi in teatro. Il teatro è quello che succede sulla scena e basta. Si dice che nel teatro di Kantor non ci sono attori. E’ vero, non ci sono nel senso della formazione teatrale. In La classe morta vediamo personaggi di tutti i tipi che fanno cose insensate e uno può dire “ma è scemo questo?”, “che porcheria è questa?”, eppure almeno duecento critici lo hanno definito il più grande spettacolo del Novecento. Il teatro è follia. Che succede quando al teatro di Parma Carmelo Bene arriva al famoso monologo dell’Amleto con il pubblico che rumoreggia davanti a sei teatranti sgarrupati? Si accendono le luci della sala e un attore gli dice “Complimenti, attacco perfetto”, quindi rivolto al pubblico “Signori, si accomodino al bar, ci sono bibite e tramezzini”: manda fuori il pubblico e il monologo viene recitato durante l’intervallo. Grandioso! Grandioso perché il teatro del Novecento ha ribaltato tutto. Pensiamo a cosa ha fatto Peter Brook che pure era il più grande regista scespiriano del secolo: ha rovesciato tutto con il teatro antropologico e barbaro. Noi veniamo da quel mondo. Come posso dirle? Se va a sentire un concerto jazz deve sapere che è jazz. Io ammiro il teatro di prosa, Ronconi, Strehler, ma non mi commuove. Lo rispetto ma non mi dà emozione. Io sono stato portato a teatro da Carmelo Bene, Kantor, Grotowski, e le dico che le più grandi cose le ha fatte Scaldati. Se si esclude la Duse, i più grandi successi internazionali non sono state opere in lingua ma Arlecchino servitore di due padroni in veneziano, Eduardo De Filippo e Dario Fo inventore di una lingua neoruzantiana.

Ma se anziché a Siracusa Le Supplici fossero state destinate al teatro di Verona, avrebbe adottato lo scaligero?

Per niente. Io il siciliano lo porto dappertutto. Vede, non vogliamo compiacere il pubblico siracusano, anche perché il nostro dialetto non è quello aretuseo. L’araldo dice “picciotte” come a Palermo e non “caruse” come a Siracusa. L’esempio di Camilleri: usa il dialetto siciliano perché riconosce in esso una forza che l’italiano non può dargli. Facciamo un esperimento? Prendiamo qualcuno, facciamogli leggere in italiano un brano del coro de Le Supplici, poi lo portiamo al bar e io gli chiedo “allora, cosa ha detto il coro?”

Probabilmente non lo ricorda. Così abbiamo che dall’alta poesia di Romagnoli si passa, sempre al teatro greco di Siracusa, al dialetto siciliano di Ovadia.

Perché no? Il teatro è libertà e verità. Non ha paura di niente. Shakespeare non è stato capace di mettere il buffo nella tragedia? Il buffo sta col buffo in teoria, ma abbiamo visto che può stare anche col tragico. E chi ha fatto questo? Il figlio di un guantaio!

Come sarà re Pelasgo nei panni di Ovadia?

Sarà una recitazione a lingua doppia. siciliano e greco simultaneamente, con un  battimento musicale. Poi salirà il siciliano da solo. Un’operazione sperimentale. Mi ritrovo molto in Pelasgo. E’ un uomo pieno di dubbi. “Che io faccia o non faccia, l’esito sarà doloroso” dice. Ha una consapevolezza dolorosissima, ma alla fine prevale in lui la decisione di affrontare anche la guerra pur di non mettere in discussione l’ideale della libertà.

In fondo le assomiglia.

Pensi a quanti dubbi mi ha procurato la questione israelo-palestinese. Io posso essere ebreo, ma sto dalla parte degli oppressi. Ho una sola patria: non è l’Italia, non è Israele, ma i diseredati e i giusti. Non negozierò mai questo.

Secondo me lei avrebbe ospitato anche i cugini egiziani oltre alle supplici, buoni e cattivi.

Io credo questo: nella Torah è detto “amerai il prossimo tuo come te stesso”. Non viene collocato il prossimo, non si dice buono o cattivo, né giallo o bianco. Vale un altro credo: se tu sei colpevole la giustizia ti deve condannare, ma la dignità non te la toglieremo mai. Anche Totò Riina non può essere privato della condizione di essere umano, come anche lo sguardo che lo osserva non può essere uno sguardo truce.

Allora vieni a parlarmi, ma se ciò che mi chiedi è un’ingiustizia ti dico no. La grande lezione de Le Supplici è declinata come giustizia. Pelasgo dice all’araldo: “Vuoi venire anche tu qui? Vieni in pace. Vuoi convincere queste donne a tornare dove ci sono uomini che le aspettano e che vogliono amarle? Sei il benvenuto. Ma se le vuoi prendere contro la loro volontà allora non te tocchi”. Siamo ancora oggi di fronte a questo grande problema del rifiuto posto 2500 anni fa ad Argo: come fare a uscire fuori dalla negazione che siamo una sola umanità. Eppure la Bibbia ce l’ha spiegato con la parabola del fratello che uccide l’altro. E cosa fa il buon Dio? Manda Caino sulla terra, non lo uccide.

Lo manda in esilio.

No, perché Caino e Abele sono già fuori dal Paradiso. Dio manda Caino a capire che l’accoglienza dell’altro è il nodo dell’esistenza stessa. E’ il malvagio che deve andarci perché è lui che deve capire. Non so come dire: padre Alex Zanotelli capisce benissimo questa verità, ma la grande vittoria sarà quando la capirà Matteo Salvini.

C’è un punto nella tragedia in cui sembra sovrapporsi un secondo coro. Lei come ha risolto questa lacuna?

In realtà il passaggio sembra affidato all’arbitrio. Perciò quel che abbiamo fatto è arbitrario: Inducine entra come narratore, una specie di deus ex machina.

Non c’è nel testo. Questo vuol dire che ha tradito non solo Paduano ma anche Eschilo.

Assolutamente. Incudine racconta tutta la storia e lo fa in un siciliano molto arioso. La gente sa già quello che vedrà. Del resto la trama è quattro cose: quelle che vengono e chiedono rifugio in nome di Giove, l’altro che ha paura di una guerra, tituba, alla fine deve fare una scelta e arrivano gli egizi. Nella nostra lettura c’è invece a questo punto (esclusa la sorpresa finale che non le dico) una scena violentissima che è come la camera della morte dei tonni, con le reti, come per i gladiatori. Quindi arriva Pelasgo e si congela la scena delle reti. “Cosa sei venuto a fare?” chiede. “Sono qui legittimamente” risponde l’araldo. E Pelasgo comincerà a parlare in greco per finire in dialetto con l’ingiungere: “Vatìnni luntanu di ca”. Vattene lontano da qui.

Il rischio è che gli spettatori siciliani rispondano come quelli di Montelepre del film Salvatore Giuliano di Rosi che, riconoscendosi, scoppiarono in sonore risate. La tragedia finirebbe in farsa.

Forse succederà. Magari qualche scolaresca farà camurrìa. Ma se succederà è perché la lingua siciliana induce a volgere il dramma in riso restando comunque dramma. C’è un detto che dice “Cu tuttu ca sugnu orbu a viru niura”: fa ridere ma è amarissimo. E c’è in Sciascia quell’altra battuta di chi a Racalmuto va a votare e dice al presidente del seggio porgendogli la busta elettorale: “Ci sputassi vossia”: il massimo del disincanto, eppure provoca una risata.

Dove ha imparato così bene il siciliano?

A Milano avevo nella casa di ringhiera dove vivevo un vicino che era siciliano e mi parlava sempre in dialetto. Il mio primo amico fu messinese quando arrivai dalla Bulgaria. E poi sono stato molto amico di Ignazio Buttitta.

Ama dunque molto la Sicilia?

Follemente. Mi sconvolge e mi fa male perché vorrei vederla capitale del Mediterraneo. Qui vorrei che si firmasse la pace tra palestinesi e israeliani perché è l’unico paese mediorientale a non aver fatto guerra contro Israele. La Sicilia è stata la sola colonia spagnola che cercò di bloccare l’espulsione degli ebrei nel 1492. Furono pronunciate tre suppliche a palazzo Steri a Palermo che io ho recitato nel 1992, nel cinquecentenario. In una i siciliani chiedono al vicerè di non credere alle accuse rivolte agli ebrei ma che se non può evitare di espellerli quantomeno che procrastini la decisione: “perché, vostra eccellenza, sono così miseri, così infelici”. Gli unici, i siciliani, a vedere gli ebrei come esseri umani. Come posso non amare i siciliani?

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BACK TO COLONO. Fuggo, cerco e riparto! Saggio di fine Campus delle Arti 2022

14 luglio alle ore 19,00 ex Convento S. Francesco

Agòn, il 24 giugno al Teatro Greco di Siracusa “Processo ad Edipo: da eroe a imputato”

Per il Siracusa International Institute neanche Edipo, giovane re di Tebe, protagonista di una delle tragedie più belle di Sofocle, potrà sottrarsi alla consueta e seguitissima simulazione processuale, Agòn, al Teatro Greco di Siracusa. A giudicarlo, la sera del 24...