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Com’è eclettico l’Eschilo stile EUR

da | Mag 23, 2008

L’unica trilogia greca pervenutaci completa celebra il passaggio dall’età del sangue e della barbarie a quella della società e del diritto. In Agamemone il sovrano, reduce dalla guerra di Troia, è trucidato dalla moglie che non gli perdona il sacrificio della figlia Ifigenia. Nelle Coefore, suo figlio Oreste torna dopo una lunga assenza e uccide senza esitazione sia la madre, per vendicare il padre, sia il di lei amante, usurpatore del regno di Argo. Nelle Eumenidi, le Erinni perseguitano il matricida, il quale ripara nella città sacra a Pallade Atena, dove la dea dichiara finita l’epoca della vendetta e istituisce il primo tribunale, l’Areopago. Oreste è assolto, e le Erinni diventano Eumenidi, benevole protettrici di quel luogo illuminato.
Questo il senso della rielaborazione del mito secondo molti, compreso Pietro Carriglio che ne dirige un sontuoso allestimento nella pregevole ancorché alleggerita traduzione di Pasolini e in due serate, con gran colpo d’occhio della sua scenografia tra Piacentini e De Chirico, pavimento e cavea semicircolare di marmo bianco davanti a una esibizione di facciata con finestre vuote tipo E42 e a una candida torre rotonda con gradini esterni a spirale. Culmine della vicenda, la proclamazione della nuova età del giure, affidata ogni sera a una diversa autorità presente nel pubblico, che legge una dichiarazione. Il testo, però, sembra più ambiguo di così. Sostenuta dall’altro protettore di Oreste, Apollo, Atena argomenta che il vero delitto imperdonabile è quando si ammazza il padre, non la madre: il genitore è l’uomo, la donna si limita a fornire ospitalità. Dobbiamo credere che Eschilo lo pensasse davvero? Si è tentati di sospettare che stesse invece sabotando, come Shakespeare dopo di lui, quel che ostenta di affermare, aprendo la strada al dichiarato ridimensionatore dell’autorità degli dèi, leggi il «cinico» Euripide.
Questo motivo di riflessione arriva con la conclusione dello spettacolo, dopo che ne sono stati sollevati molti altri, forse persino troppi. L’impianto scenografico coniuga classicismo e sua rivisitazione moderrnoide, i costumi mescolano elementi antichi e attuali – manti e diademi, ma anche pantaloni, scarponi e almeno una coppola; allo stesso modo le situazioni sgranandosi toccano tanti temi, tra cui il potere, l’ambizione, la non-partecipazìone dei diseredati (che ripetono formule attonite, come il coro dell’Assassinio della cattedrale), la sensualità, il Male (ottima coreografia alla Pina Bausch delle Erinni). Non dunque, malgrado l’assunto, una visione lineare dei tre testi, ma, forse più in carattere coi nostri tempi confusi, un eclettismo sottolineato dalle eleganti musiche del mio cuginetto Matteo d’Amico, cantate dai cori e suonate da ottoni, violoncelli, fisarmonica. L’arrivo di Atena, una superba Elisabetta Pozzi in tenuta rinascimenta¬le, per esempio; è salutato da una melodia barocca. Clitennestra è macellata in scena, come in un dramma elisabettìano. E i vari monologhi o dialoghi a due diventano numeri per attori omologati dal microfono. Spiccano Giulio Brogj (Agamennone), Maurizio Donadoni (un messo), Stefano Santospago (capocoro), la giovane Ilaria Genatiempo (Cassandra). Luciano Roman gigioneggia vuoi come guardiano, vuoi come Egisto; Galatea Ranzi è un’algida regina e una Elettra poco convinta; Luca Lazzareschi, tutto in nero come Amleto, altro vindice di padre assassinato, sfoggia una concentrazione ammirevole. Successo.

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