Sette contro Tebe – appunti di regia
TEBE ,vittima di uno stallo dell’animo.
Tebe è una città assediata, in preda al panico.
Una città contesa tra eserciti fratelli.
E’ la paura la protagonista dell’intera opera, una paura fomentata dai suoni, dal clamore e dagli echi dell’esercito nemico che circonda la città.
E’ una città svuotata, abitata più da donne che da uomini, come tutte le città contemporanee dove la guerra e l’assedio sono stillicidio quotidiano. Tebe è come Sarajevo ieri, come Aleppo oggi. Le donne sanno che a loro toccherà essere stuprate e ridotte schiave, non possono far altro che pregare lontane divinità per avere un conforto al terrore che le invade
Tutti i personaggi dell’opera sono vittime di uno stallo dell’animo, una sospensione di azione in attesa del massacro o della estrema lotta che porterà comunque rovina.
Quando il Messaggero descrive la terribilità degli scudi dei sette guerrieri nemici che si apprestano ad assaltare le sette porte della città, proietta su quegli scudi la paura dell’ intera città, lo scudo nemico diviene il luogo fisico e circoscritto del panico che ha invaso gli animi.
Eteocle deve faticosamente trovare altre parole che rendano inefficaci le apocalittiche visioni del Messaggero, riducendo i sette guerrieri nemici a umanissimi corpi contro cui scagliare altri corpi guerrieri, i sette eroi tebani che li affronteranno, compreso lui stesso che si scontrerà alla settima porta col fratello Polinice.
La maledizione che pesa sulla città, quella lanciata ai figli- fratelli dal padre -fratello Edipo è pura metafora, serve al mito, non alla realtà, serve a dare un nome all’indicibile.
Eteocle è un eroe fragile, L’efficacia delle sue parole si misura solo sul plauso del popolo, prima ancora che sulla scena della battaglia.
Fin dall’inizio si scontra con la donne impaurite, scaricando su loro l’ansia dello scontro imminente.
Antigone è figura anch’essa fragile, attonita di fronte alla catastrofe, guidata unicamente dall’istinto. A lei, fin dall’inizio metterò in bocca parole che spetterebbero al coro, perché la guerra fratricida avviene da subito anche all’ìnterno della città, è una guerra tra fratelli malnati.
La scissione finale tra chi vorrebbe seppellire Polinice e chi no è quello che sempre accade dopo una vittoria, quando comincia la spartizione cruenta tra i vincitori alleati, quello che è accaduto alla Libia dopo Gheddafi, quel che accadrà a Mosul tra breve, quel che accadde a Berlino nel secolo scorso.
Il coro delle donne e degli uomini non è un coro, non si muove compatto, non parla all’unisono, è fatto di individui, ognuno con la sua particolare forma di tremore e di reazione.
L’adattamento del testo, a partire dalla bella traduzione di Giorgio Ieranò, inventa un linguaggio di concretezza assoluta, niente incisi, niente declamazioni, niente voli coloristici, tutto è presente, composto di terra, di materia, le parole lottano col poco tempo che resta a disposizione.
Sarà uno spettacolo in corsa, di azioni continue, di movimenti corali ideati da Alessandra Fazzino, che non devono però mai apparire come pure coreografie. Gli scudi saranno composti coralmente da corpi metamorfici, in folgoranti quadri iconici.
Il suono e la musica di Mirto Baliani saranno determinanti, saranno loro a muovere i corpi, li assedieranno, li condurranno recalcitranti alla conclusione tragica del finale.
Sulla scena pensata da Carlo Sala ci sarà un grande albero totem che è il luogo di un culto contadino e pastorale, niente altro, tranne alcune pietre-cippi che segnano il perimetro circolare della città.
Nel finale l’antica agorà diverrà una terra bombardata, fatta di crateri, mentre i corpi dei superstiti diverranno quotidiane immagini di profughi in fuga.
Marco Baliani