Benvenuti envenuti nel fantastico mondo degli “Uccelli” di Aristofane, commedia senza tempo, che travalica i secoli come se rileggesse la vita ai tempi odierni. Le antiche pietre del sempre stregante Teatro Greco di Siracusa, si trasformano nell’utopica città “Castelliinària degli allocchi”, nel sogno e bisogno di libertà che da sempre ognuno di noi cova in seno, un rifugio tra le nuvole per utopisti che non hanno paura di trasvolare.
La scena funzionale ed esteticamente perfetta (la stessa utilizzata per le due tragedie ” Prometeo” e “Baccanti”) è firmata dall’architetto olandese Rem Koolhaas, una geniale tribuna di legno rotante a base circolare, con un lungo corridoio in alto che la incornicia unendo la skenè agli spalti. Un vero colpo d’occhio. In un’atmosfera circense e barocca libra la favola onirica e sociale, la caustica e grottesca regia di Roberta Torre si riconosce immediatamente, un caleidoscopio di colori e di stili dal ritmo incalzante, si mescola continuamente tra il kitsch e il surreale al cubo, creando una strampalata sarabanda dove nonostante niente sembra al suo posto, tecnicamente e scenicamente funziona tutto a meraviglia in un sorprendente straniamento. Gli Uccelli del titolo sono una policroma umanissima tribù interrazziale ardita e spassosa, bestiario ludico e imprevedibile, starnazzante e gorgheggiante, abbigliati in stile settecentesco, parrucche sculture, tulle, trine e merletti, molti di loro interpretati dai giovani diplomanti dell’Accademia, bravi nei cinguettii e movenze piumate, entusiasti nelle danze dove alternano una serie d’ispirazioni poliglotte tra acrobazie, ancheggiamenti e leziosità. La traduzione divertente e contemporanea di Alessandro Grilli, dà voce alla variegata armata Brancaleone che invade e pervade il proscenio, esaltando la trama del famoso testo. Deus ex machina del progetto progressista nella città del sogno, sono il vecchio Pisetero, interpretato da un corpulento giocoso e incisivo Mauro Avogadro, ed Evelpide, un giullaresco e talentuoso Sergio Mancinelli. La coppia stanca della snervante vita ad Atene, decide di trasferirsi nel mondo pennuto alla ricerca della complicità del trace Tereo, trasformato in Upupa o meglio Upupoi, corpo e svolazzi di Rocco Castrocielo, capo della combriccola dei piumosi.
L’anziano imbonitore convince l’assemblea squittente della loro regalità e immunità dagli dei, così s’inizia a costruire il muro di cinta della polis, dove gli dei non potranno soddisfare i loro capricci senza il permesso dei volatili. Inizia una sfilata d’improbabili personaggi, minutaglia umana giunta da Atene per scopi loschi: una bomba-sexy sedicente consigliera regionale, un poeta smemorato, un mercante di decreti, doppiogiochisti e soverchiatori, è la quintessenza impietosa della nostra odierna collettività. Dopo i ciarlatani arriva la lunga mano del potere, Zeus manda i suoi emissari per dissuadere gli screanzati, ma giacché si tratta di una vera rivoluzione, uccellacci e uccellini, capitanati da un ringalluzzito Pisetero, oppongono resistenza e rosolano con tanto di condimento succulento i volatili ribelli all’emancipazione. Il dado è tratto, una rappresentanza divina formata da Poseidone, Eracle e Triballo, inebriati dal profumino degli arrosticini sacrificati, accettano le condizioni e come pegno Zeus acconsente alle nozze della sua bella figlia Regina con l’anziano ateniese in preda a una ritrovata foga libidica. Si scatena la più allegra e bislacca festa di matrimonio che le rappresentazioni classiche ricordino. Grande Aristofane, che ci permette ancora di credere nella fantasia nel suo potere e trionfo, è di questi sogni che dobbiamo nutrirci se vogliamo continuare a sperare, mentre le vicende reali si fanno sempre più oscure e indigeste.