LA PRONUNCIA NEL TEATRO ANTICO
di Vincenzo Ruggiero Perrino
La lingua greca si presenta articolata sin dall’età del bronzo in vari dialetti, i quali vengono fatti risalire dagli studiosi al cosiddetto “protogreco”, una lingua ipotetica che sarebbe derivata dall’indoeuropeo fra il 3000 e il 2000 a. C..
Le più antiche documentazioni del greco sono fornite dalle tavolette micenee, redatte in scrittura sillabica chiamata “lineare B”, sulle quali si trovano registrati documenti contabili e commerciali. Alcuni ritengono che quella delle tavolette micenee fosse una sorta di arcaica lingua ufficiale, utilizzata per le relazioni diplomatiche e commerciali. Parallelamente, la realtà linguistica delle popolazioni sarebbe stata già in quell’epoca più complessa di quanto quei documenti lasciano intendere.
Durante l’età del ferro, e cioè tra le fine del IX e l’inizio dell’VIII sec. a. C., i dialetti greci appaiono grosso modo divisi in cinque grandi gruppi:
- dialetto ionico-attico, distaccatosi dal ceppo comune, nelle colonie dell’Asia Minore, intorno al 1000 a.C.;
- dialetti greci occidentali, divisi a loro volta in dialetto dorico e dialetti del greco nordoccidentale;
- dialetto eolico (occidentale e orientale), parlato in Tessaglia, in Beozia, in molte isole del Mare Egeo settentrionale (fra cui Lesbo);
- dialetto arcado-cipriota, parlato in Arcadia e a Cipro, che era un relitto dell’antico dialetto miceneo;
- dialetto omerico, che non veniva parlato da nessuna popolazione, ma che era la lingua standard della poesia epica.
Naturalmente i dialetti greci sono strettamente collegati ai generi letterari. Il quadro era estremamente articolato, ma è possibile schematizzarlo più o meno come segue: per l’epica veniva impiegato il dialetto omerico a base ionica; per la prosa lo ionico-attico, usato anche nel dialogo del teatro e nel giambo; per il canto corale il dorico, anche nella tragedia e nella commedia; per la lirica monodica il dialetto natio del poeta.
Riferendoci in particolare ai generi teatrali, e attenendoci al versante strettamente linguistico, sarà utile valutare l’impiego di forme dialettali che costituiscono quella prerogativa poetica che si rivendica per ogni scarto linguistico o lessicale, rispetto al linguaggio da impiegarsi quotidianamente, come prescrive Aristotele nella Poetica (1458a16).
Per quanto attiene alla lingua dei poeti tragici, è bene evidenziare la dimensione non realistica della lingua dei tragici, già ben evidenziata da Aristotele. Il primo e più evidente segno di non realismo risiede nel fatto che tutti i personaggi, greci e non, parlino una stessa lingua, senza particolari sfumature.
In particolare, Eschilo si diletta negli arcaismi. Infatti, è nelle sue tragedie che è possibile rinvenire più numerose tracce degli antichi dialetti ionico, dorico ed eolico, che non presso gli altri tragici. Eschilo, essendosi valso correttamente, anche secondo Aristotele (Poetica 1458b19), di ciascuna delle parole dette, di doppi nomi, di glosse e di metafore, evitò gli errori che il filosofo sintetizza così: «Solenne e lontana dalla trivialità è l’espressione che adopera parole strane, per tali intendendo la glossa, la metafora, l’allungamento e tutto ciò che esula dall’uso proprio. Ma se si usano tutti insieme, si avrà un enigma o un barbarismo delle glosse […]. Bisogna, dunque, adoperarli misti; renderanno il discorso non triviale e non sciatto […]; l’uso proprio della parola assicurerà la chiarezza».
Eschilo, avendo unito alla lingua consueta espressioni arcaiche, diede alle sue opere varietà di forme. Le immagini e le metafore che si trovano in Eschilo non sono degli ornamenti esteriori e ridondanti, ma sono un vivificante disegno delle idee che si nascondono nell’animo del poeta. La lingua di Eschilo si compiace per la coesistenza di parole iconiche, metafore, ossimori, in una tessitura arcaica nella quale l’accumulazione di parole contribuisce a chiarire il senso del pensiero dell’autore.
Sul fronte comico, i fatti linguistici nella commedia del V sec. a. C. sono senza dubbio più vari rispetto alle coeve opere tragiche. Risalendo alle origini della commedia dorica di Epicarmo (che pure Aristotele cita come capostipite), è bene riferire che i papiri che ce ne trasmettono le opere, recano segni posti per aiutare il lettore del II sec. d.C. alle prese col dorico.
Aristofane scrive in dialetto attico e spesso le parodie di passi tragici, che si ritrovano nelle sue commedie, sono frutto di nuove tendenze linguistiche, la cui diffusione sarebbe stata influenzata anche dalla sofistica. Qualche studioso osserva che Aristofane attua una resa dialettale coerente e profonda, tanto che possiamo ritenere che il suo intento non fosse quello di burlarsi di dialetti diversi dall’attico. Nelle commedie non ha luogo quindi una comicità basata sulla mutua incomprensione, e dobbiamo ritenere più verosimile che la rappresentazione sulla scena di dialetti non attici rispondesse alle esigenze del realismo comico.
Altri studiosi hanno insistito sull’ipotesi che il dialetto può assumere il valore di vincolo sociale in un contesto geo-politico turbato come quello della guerra peloponnesiaca, sfondo e materia di molta parte della produzione di Aristofane.
In ogni caso, il teatro comico è l’unica sede in cui non ha luogo la convenzione epica e tragica per cui tutti i personaggi, greci o no, condividono lingua e perfino cultura. Inevitabilmente, la lingua barbara (cioè quella straniera, quella non greca), se parlata da un ateniese produce un effetto comico, e così un altro dialetto, ancorché fedelmente riprodotto sia dal poeta che dall’attore. Si deve osservare che, mentre la lingua barbara inventata e la lingua attica storpiata da un barbaro sono oggetto di derisione, e motivo di divertenti fraintendimenti, gli altri dialetti greci vengono utilizzati per rimarcare comunanza di problemi malgrado le distanze linguistiche, come avviene nelle identiche azioni e reazioni di donne e uomini ateniesi e spartani nella Lisistrata.
Della lingua dei Mimiambi di Eronda si deve sottolineare la mescolanza di vari dialetti ad un impasto linguistico sostanzialmente ionico, scartando di conseguenza l’idea, in voga qualche decennio fa, secondo la quale in Eronda si riscontrerebbe un’adesione al dialetto ionico arcaico, quello di Ipponatte.
Per quanto riguarda lo stile di Menandro, a prima vista semplice e disteso, è invece di controllata eleganza e studiata ricercatezza. Egli adotta costantemente uno stile medio, uniforme e vicino alla parlata della parte più colta del suo pubblico e si astiene dagli estremismi linguistici, sia quelli dello stile sublime della tragedia, sia, specialmente, quelli del registro colloquiale e spesso scurrile ed osceno della commedia antica. La lingua è il dialetto attico del tempo (IV sec. a.C.) che preannuncia il costituirsi della koinè diàlektos (la “lingua comune”) di età ellenistica.
Il teatro romano
Il latino acquistò grande importanza con l’espansione dello stato romano e in quanto lingua ufficiale dell’Impero si radicò in gran parte dell’Europa e dell’Africa settentrionale. Se è evidente la discendenza delle lingue romanze dal latino volgare, è altrettanto vero che parole di origine latina si trovano anche in molte lingue moderne di altri ceppi. Il che si spiega col fatto che anche dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, per più di un millennio il latino fu, nel mondo occidentale, la lingua della cultura.
Sul fronte dei commediografi, Plauto e Terenzio, bisogna dire che unanime è il parere degli studiosi circa la grandezza stilistica di Plauto. Come Nevio prima e poi gli altri autori di palliatae, egli usa come “base” il sermo familiaris di Roma, cioè il linguaggio della buona conversazione quotidiana, ovviamente con le caratteristiche lessicali e sintattiche che esso aveva ai suoi tempi. Pochissimi sono i grecismi che si possono rintracciare nelle sue commedie, e soprattutto non c’è niente di popolaresco o, peggio, di dialettale (ciò che gli antichi avrebbero definito sermo plebeius e sermo rusticus).
Questa tendenza linguistica di Plauto è spiegabile con lo sforzo di acculturazione della città, che stava espandendo il suo dominio su tutto il Mediterraneo. E non si trascuri di riflettere sul fatto che Plauto, non diversamente da Livio Andronico e da Nevio, non doveva aver utilizzato il latino come lingua materna.
Sulla purezza del sermo Plautinus vale riferire la testimonianza del grammatico Elio Stilone, che, alla fine del II sec. a. C., disse che se le Muse avessero voluto parlare latino, l’avrebbero fatto con la lingua di Plauto. La quale si presenta straordinariamente sciolta ed espressiva; utilizza ogni virtù del lessico e della sintassi del latino arcaico; ed è ben inquadrata sotto il profilo metrico. Infatti è raro constatare che l’ordine delle parole più naturale e consueto venga sforzato per ragioni metriche.
Tuttavia, Plauto non è, come sarà invece Terenzio, il poeta di temi ed affetti “borghesi”. Egli predilige l’azione e l’esteriorità di certe “maschere”, sacrificando inevitabilmente “psicologia” e “interiorità” dei personaggi. Così il linguaggio non resta sempre fedele al modulo medio del sermo urbanus. Nelle scene di maggior concitazione comica Plauto fa spesso ricorso ai solenni stilemi del linguaggio sacrale e giuridico e della tragedia, creando a bella posta uno scarto profondo fra la situazione creata ed il modo di esprimersi del personaggio.
Inoltre Plauto condivide con gli autori a lui contemporanei (in particolare Nevio e Ennio) il gusto per la frase sonora. Inventa nuovi vocaboli, che spesso non riappariranno mai più nella latinità (anche perché difficilmente concepibili fuori del loro contesto scenico), o innova sul piano morfologico (anche qui senza essere seguito dalla latinità successiva), sia per reggere il gioco a battute comiche basate su equivoci e giochi di parole, sia per amplificare la giocosità del discorso.
Le commedie di Terenzio invece ci introducono in un mondo linguistico più pacato e sommesso. L’esuberanza, la vivacità e il vigore delle chiassose commedie plautine, lasciano il posto a effetti più sottili di reticenza e decoro. Per alcuni studiosi, la differenza di lingua in Plauto e Terenzio rispecchierebbe anche una distinzione di classi sociali: Plauto utilizzarebbe l’idioma degli strati inferiori della popolazione, mentre Terenzio avrebbe fatto uso della lingua della società più raffinata, quella del colto circolo degli Scipioni.
Sta di fatto che in Terenzio non sono riscontrabili, se non rarissimamente, certe forme grammaticali liberamente ricorrenti in Plauto. Inoltre, che Terenzio adotti una lingua più decorosa e raffinata appare evidente anche dalla circostanza che, per esempio, le ingiurie e le invettive sono usate con maggior parsimonia e soprattutto per ottenere una più accentuata caratterizzazione dei personaggi, piuttosto che per ottenere effetti comici.
Anche nei brani dialogici Terenzio si preoccupa di avvicinarsi il più possibile al linguaggio naturale. Tant’è che gli scambi di battute dei personaggi terenziani, proprio in omaggio alle usanze colloquiali della quotidianità, sono più concisi e serrati, e i discorsi dei vari interlocutori del dialogo dovevano accontentarsi, come succede nelle chiacchierate di tutti i giorni, di un numero minimo di parole, in quanto il senso del discorso trovava il suo completamento nel contesto della situazione. Tant’è che non di rado, e a differenza di quelli di Plauto, i personaggi di Terenzio interrompono bruscamente le frasi del loro interlocutore, creando un naturalistico effetto di “botta e risposta”.
Insomma, come qualche studioso ha sottolineato, non v’è dubbio che le opere di Terenzio contengano una forte componente colloquiale che, presumibilmente, rispecchiava le usanze contemporanee. Certo è impossibile dimostrare che fosse quello il modo di parlare corrente nel «circolo degli Scipioni», ma in ogni caso la maggior raffinatezza e il più elevato decoro propri di Terenzio si possono interpretare come caratteristici del linguaggio in uso fra le classi superiori.
Se il mimo, le atellane e altri generi minori insistono per una maggiore trivialità del sermo, sul versante tragico – si ricorderà che le uniche tragedie integralmente pervenuteci della latinità classica sono quelle di Seneca, di ispirazione mitologica, e per lo più derivate da Euripide – i discorsi dei personaggi sono il più delle volte molto lunghi. A questi monologhi, è evidente che in un’eventuale messa in scena, doveva corrispondere un altrettanto lungo silenzio degli altri personaggi presenti in scena.
Tuttavia la critica ha sempre sottolineato che in Seneca appare complessivamente scarsa la preoccupazione per la dinamica dello sviluppo drammatico, mentre l’attenzione è sui discorsi, sui dialoghi e sulla coerenza dei singoli quadri.
Lo stile tragico di Seneca presenta caratteristiche affatto peculiari. La sobrietà della sintassi enfatizza la parola grazie all’incessante ricorso a figure di suono e senso, ad interrogative retoriche, ad esclamative e ad ogni altro espediente declamatorio, tipico dello stile che egli adotta nelle opere filosofiche. Tanta magniloquenza serve a descrivere scenari raccapriccianti, a gridare orrori che altrimenti la parola normale non riuscirebbe nemmeno a pronunciare. Cellula dello stile senecano continua ad essere la sententia, che spesso interviene a salvare, con le sue definizioni o asserzioni fulminanti, anche quella che parrebbe la parte più debole della tragedia, il dialogo. Spesso per vivacizzare la drammaticità dell’azione l’autore intervalla lo svolgimento delle vicende con lunghe digressioni che venivano a creare storie più piccole pressoché indipendenti dalla trama della tragedia.
Dopo le tragedie di Seneca, il teatro lentamente prendere altre strade, che condurranno ad una performatività che sovente punta all’esibizione di corpi (sia in senso agonistico, che acrobatico), e tralascia volutamente l’esposizione di contenuti verbali. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.