Cast e regie pienamente indovinati per le tradizionali tragedie in scena al Teatro greco il filo della malattia dell’anima è quello che lega le due opere scelte quest’anno dall’Inda.
L’ira funesta, stavolta, è tutta di Aiace. Depredato delle armi di Achille, che l’appalto truccato dagli Atridi ha assegnato al solito Ulisse, si abbandona a una furia cieca che Maurizio Donadoni traduce in un repertorio sonoro gutturale, fatto di grugniti e di urla disumane, strappate, probabilmente, alle bestie che ha massacrato scambiandole per i suoi nemici. Testa insanguinata e movenze da lottatore, l’eroe di Sofocle incarna la gattopardiana consapevolezza di essere stato leone prima di questo tempo presente che premia le volpi. È un “Aiace” grand guignol quello che al Teatro greco di Siracusa ha aperto il nuovo ciclo di spettacoli classici dell’Inda, legato, quest’anno, dal filo della malattia dell’anima, e che la regia di Daniele Salvo trascina su vette da delirio rabbioso, caricando i toni e squartando d’improvviso la tenda dell’eroe per mostrare la sua strage di pecore. Uno sterminio provocato da Atena (una Ilaria Genatiempo con modulazioni da thriller) e che la Tecmessa di Elisabetta Pozzi rivive in un saliscendi emotivo da grand’attrice, impennandosi fino ai confini dell’epilessia per poi sprofondare nel pianto. Il fratello di Aiace, Teucro (un convincente Giacinto Palmarini), vince la disputa sulla sepoltura con il tronfio Agamennone di Francesco Biscione e il grottesco Menelao di Mauro Avogadro. La scena di Jordi Garcès crea il passaggio obbligato di un laghetto d’acqua che tutti gli attori, a turno, attraversano a piedi. Bella l’immagine finale che accende tredici fiaccole sulla muraglia al lato di un’Atena trionfante.
Applausi per tutti. Dalla follia di Aiace all’eros malsano che avvelena “Fedra”, la tragedia di Euripide che completa il ciclo, e che ancora una volta vede una dea ordire un piano crudele: il bersaglio è il virtuoso Ippolito (un Massimo Nicolini assai applaudito), un misogino che vede le donne come germe del male e che preferisce la caccia all’amore. Ce n’è abbastanza per Afrodite (la Genatiempo, maestosamente fasciata da una veste dorata) per fare innamorare di lui la matrigna Fedra, la brava Elisabetta Pozzi che si consuma come una posseduta nella sua passione malata, innescando sciagure a valanga: la nutrice (una convincente Guia Jelo) spiffera la confessione di Fedra a Ippolito provocando lo scandalo, la matrigna si uccide lasciando per vendetta una lettera che accusa di incesto il figliastro, il marito Teseo (un Donadoni stavolta misurato) scaglia la sua maledizione che si materializza in un mostro marino. La regia di Carmelo Rifici sviluppa il tema del derby tra religioni che oppone il desiderio all’astinenza e segna la scena di Garcés con idoli e cavalli simil Troia.
Gli attori, invece, sono due volte bravi nel loro confronto con la spigolosa traduzione di Edoardo Sanguineti.
Repubblica (Palermo), 14 maggio 2010