55° Festival
del Teatro Greco di Siracusa
10 Maggio | 6 Luglio 2019

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Elena

di Euripide

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Nel prologo, Elena racconta la sua storia in modo assai diverso dalla tradizione più diffusa. Non è mai andata a Troia; Paride non ha rapito lei, ma un suo simulacro che Era, adirata con lui per il giudizio, ha sostituito alla donna vera, trasportando quest’ultima in Egitto, ospite del saggio re Proteo, e, morto Proteo, del figlio di lui Teoclimeno. Costui ambisce in modo pressante alle sue nozze, senza però intaccarne la fedeltà, illuminata dalla speranza riposta in un oracolo di Ermes, che tornerà con Menelao a Sparta e sarà felice. L’opinio communis a cui Elena sa di essere ingiustamente incatenata si manifesta subito con l’arrivo di Teucro, il fratello di Aiace, esule da Salamina, che ‘scambia’ Elena per l’Elena a lui nota; la insulta e poi se ne scusa. Poi le racconta alcune vicende dei capi greci dopo la vittoria; di Menelao sa che è sparito e forse morto. Altre tristezze per Elena; sua madre Leda si è uccisa, e forse anche i fratelli Castore e Polluce sono morti. Teucro poi esce, su consiglio di Elena: per causa di lei, Teoclimeno odia i Greci.
Il Coro, formato da giovani prigioniere greche, viene a compiangere, in una parodo commatica, Elena che piange le sue disgrazie. Poi, in trimetri, lamenta la sua cattiva reputazione; vorrebbe diventare diversa e brutta. La cosa che più la tormenta è la presunta morte di Menelao, ma anche in questo caso, non accetterebbe le nozze di Teoclimeno, preferirebbe morire. La Corifea la esorta a cercare notizie certe di Menelao presso la profetessa Teonoe, sorella di Teoclimeno. In un altro commo, Elena esprime un violento desiderio di morte, e confronta il destino di sua madre con quello di Callisto, un’altra amante clandestina di Zeus che fu trasformata in orsa, poi lei e il Coro entrano insieme nel palazzo, lasciando la scena vuota.
Arriva il naufrago Menelao, rievocando la sua illustre genealogia e le sue imprese: ma adesso la miseria lo costringe ad andare vestito di stracci e a chiedere umilmente soccorso per sé e i compagni (che ha lasciato in una grotta assieme alla falsa Elena). Bussa al palazzo, ma una vecchia portinaia gli comunica che non può far entrare nessun greco, a causa di Elena, che è là. Menelao rimane sconvolto dallo stupore, pensa a un’Elena omonima; ma la vecchia ha parlato con ogni precisione di un’Elena spartana, figlia di Zeus, e che ha per padre putativo Tindaro.
Rientra il Coro, sollevato dall’aver sentito da Teonoe che Menelao è vivo, e poi Elena. L’incontro con Menelao è rapido: dopo un primo momento in cui Elena si crede insidiata, avviene il reciproco riconoscimento, ma Menelao non si convince neppure quando gli viene raccontato l’inganno macchinato da Era contro Paride, finché non sopraggiunge uno dei suoi marinai con una notizia clamorosa: la falsa Elena è scomparsa dopo avere detto le stesse cose che la vera ha appena dette a Menelao. Il messaggero si crede giocato quando vede là Elena, ma Menelao ha finalmente capito, e i due sposi si abbandonano a un appassionato recupero di tenerezze. Dopo che il messaggero ha commentato quanto sia inafferrabile il divino e quanto inutili i profeti che, in campo sia greco che troiano, non hanno demistificato la falsa Elena, viene finalmente affrontato il problema di sfuggire a Teoclimeno. Elena progetta di chiedere l’aiuto di Teonoe, poi lei e il marito giurano di uccidersi se non riusciranno a ricongiungersi.
Proprio allora entra Teonoe, consapevole del suo potere, che la porta a decidere fra due piani divini opposti; può salvare Menelao nascondendo la sua presenza al fratello, come desidera Era, o perderlo, come vorrebbe Afrodite, preoccupata della sua reputazione. Ma la profetessa cede alle suppliche di Elena che rivendica la giustizia della sua causa e chiede di poter tornare in Grecia per dimostrare la sua innocenza, e a quelle di Menelao che oltre a perorare il suo diritto a riavere la sposa svela il giuramento di morte appena compiuto. Ora però occorre pensare a fuggire ed Elena elabora un piano che permetterà di avere a disposizione una nave per il viaggio. Dirà che Menelao è morto e che vuole dedicargli un cenotafio in mare; Menelao stesso farà la parte dei superstite che ha portato la notizia. Sul suo progetto nvoca la benedizione di Era, ma anche della ‘nemica’ Afrodite.
Il Coro ripensa alle angosce della guerra e dei ritorno degli eroi e alla sorte di Elena che, innocente, è stata diffamata: non si vedono le certezze divine che dovrebbero governare il mondo. L’ultima strofe è un’appassionata condanna della guerra.
Entra Teoclimeno, e con lui Elena recita la commedia della vedova affranta, ma promette che lo sposerà dopo le esequie del primo marito. Teoclimeno crede facilmente alla pseudo-usanza dei cenotafio marino e concede nave e permesso.
Il Coro rievoca la lunga e dolorosa ricerca che Demetra fece della figlia Persefone rapita da Ares, la partecipazione affettuosa delle altre divinità, la desolazione della terra, i riti in suo onore, e rimprovera enigmaticamente ad Elena di trascurare il suo culto.
Teoclimeno cerca di trattenere Elena dal partecipare alla cerimonia: teme che per il dolore si getti in mare; Elena lo tranquillizza e finalmente i preparativi sono ultimati. Menelao, ricordando tutte le sue sofferenze, invoca l’aiuto di Zeus.
Il Coro anticipa mentalmente il viaggio di Elena fino a Sparta ed è preso a sua volta dal desiderio dell’evasione. Poi invoca i Dioscuri, protettori della navigazione, che assisteranno il viaggio della sorella.
Teoclimeno riceve da un messo la notizia della fuga di Elena: lei e il presunto superstite del naufragio si sono riuniti ad altri Greci, che Menelao ha chiamato a raccolta contro i barbari, vincendo facilmente la loro resistenza. Furibondo, il re minaccia di uccidere la sorella, ma viene trattenuto dalle donne del Coro, che coraggiosamente affermano la giustezza del comportamento che essa ha tenuto. Appaiono poi i Dioscuri per comunicare al re che la sua sconfitta è voluta dal fato, e predire l’avvenire di Elena, che diventerà una dea.

Il fascino peculiare dell’Elena risiede certamente nella versione peculiare del mito che ribalta il clichet della colpevolezza femminile, già topico in Omero e diventato addirittura banale nel vasto macrotesto euripideo delle tragedie d’argomento troiano. La nuova Elena,come la chiama Aristofane, non è solo esente da colpa in base all’andamento delle circostanze: è portatrice del valore puntualmente opposto alla sua fama, una fedeltà coniugale appassionata ed eroica, pronta a misurarsi con ogni rischio e ad affermarsi sulla morte. Un valore tanto più efficace, in termini drammaturgici, in quanto non si celebra in uno spazio idilliaco dal quale sia prodigiosamente scomparso il topos negativo di Elena, ma con esso anzi ha un continuo e penoso confronto: il fantasma di Elena adultera, fatto d’aria, rappresenta la forza velenosa dell’opinione e la sua capacità di insidiare la verità e la sostanza; e rappresenta anche l’incertezza epistemologica dell’uomo, smarrito in un mondo dove l’identità apparente sembra rimandare a esperienze diverse e incompatibili, al punto che Menelao preferisce pensare alla possibilità di un mondo oggettivamente tutto raddoppiato.
Con Elena si inaugura dunque la tematica inquietante del doppio, la suggestione cioè che ove non vi sia l’inconfondibilità della persona, viene minata la realtà non solo di quella persona, ma di ognuno che intrattenga con essa relazioni significative, e forse, per allargamenti successivi del mondo intero. Questo rischio è nella tragedia euripidea contenuto mediante precise strategie: quella che evita l’incontro in scena tra le opposte immagini, visto che la falsa Elena dilegua non appena Menelao ha incontrato la vera; quella che limita la crisi di Menelao alla dimensione logico-conoscitiva, risparmiando le emozioni, a cominciare dalla domanda come possa ricostruirsi senza problemi una concordia amorosa dopo tanti anni di equivoco (e di rancori e ambiguità come quelli che lo stesso Euripide rappresenta nelle Troiane).
Ma il pathos non investe la coppia anche perché è tutto formidabilmente deviato verso l’amarezza e l’angoscia collettiva: se la guerra di Troia è stata combattuta per un fantasma, ciò significa che l’infelicità umana non ha un senso, e che fallisce ogni ipotesi di conferirglielo, prima fra tutte la dimensione religiosa, la comunicazione fra uomo e Dio.
Inoltre, alla perdita di verità del mito, si associa la perdita dello statuto eroico che costituiva il suo canone assiologico: il Menelao dell’Elena è il più impressionante degli antieroi o eroi degradati che Aristofane rimproverava ad Euripide: respinto (con qualche minaccia di violenza fisica!) dalla portinaia di Teoclimeno, si assogetta all’umiliazione di veder considerata irrilevante la sua gloria (“Altrove forse eri superbo, non qui certamente”, v.454) e normalizzata la sventura tragica (“Sono molti a soffrire, non tu solo”, v.464). Si aggiunga che lo scandalo rappresentato da questa scena risulta da una precisa scelta compositiva di Euripide, che per mettere in questa triste situazione il reduce ha fatto uscire, con un pretesto, il Coro che, informato da Elena, sarebbe stato con lui ben altrimenti simpatetico. Ma anche quando è avvenuto il riconoscimento che suona nei confronti di Menelao come un riscatto, non è il suo valore “epico”, l’arma adatta a risolvere la situazione (“non hai via d’uscita, nota Elena a v.813) ma l’ingegnosa astuzia femminile, che ripete i percorsi della tragedia parallela, l’Ifigenia fra i Tauri, nel prevaricare l’ingenuità del re barbaro.

LE TROIANE

di Euripide

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Il dio Poseidone appare davanti alle rovine delle mura di Troia, che un tempo ha costruito. I Greci hanno espugnato la città grazie al cavallo di legno, e le donne troiane sono sorteggiate tra i vincitori come schiave. Appare poi Atena, anch’essa ora nemica dei Greci (Poseidone critica la sua volubilità) da quando Aiace Oileo ha violato il suo tempio per rapire la profetessa Cassandra; e insieme le due divinità progettano per i Greci un ritorno tempestoso.
Dopo che sono uscite, Ecuba piange il mutamento della sua sorte e di quella della città, maledicendo Elena.
Alla voce della regina accorre il Coro, formato da donne troiane che gettano uno sguardo timoroso sul proprio futuro di costrizione e servitù. Ma almeno non sia a Sparta, la terra dell’odiata Elena: piuttosto ad Atene, o in Tessaglia, o in Magna Grecia.
L’araldo Taltibio viene a riferire la sorte delle donne; Agamennone, innamorato di Cassandra, l’ha presa per sé, Polissena è (ambiguamente) consacrata alla tomba di Achille; Andromaca è preda del figlio di Achille, Neottolemo, e la stessa Ecuba di Odisseo, l’ingannatore.
Con una torcia accesa Cassandra celebra il proprio rito nuziale, l’unione che sarà per lei una vittoria perché segnerà la rovina di Agamennone. Poi argomenta: non lei soltanto, ma tutti i Troiani trionfano sui Greci e sono più felici di loro; non hanno commesso orrori come il sacrificio di Ifigenia e sono morti per la patria e in patria, tra le dolcezze degli affetti familiari. E, checché ne dica Taltibio, Ecuba non sarà la schiava di Odisseo, il quale avrà invece un lungo e atroce ritorno. Al termine di questo discorso paradossale, Cassandra strappa le bende sacre e abbandona la funzione profetica. Ecuba lamenta a sua volta la solitudine e la miseria, sopravvenute dopo un’esistenza in una famiglia ricca di affetti e di un potere immenso.
Il Coro ricorda l’inganno del cavallo, e le feste e le danze per la pace, troncate dall’assalto dei Greci.
Entra Andromaca, la vedova di Ettore, e tra lei ed Ecuba si svolge un lungo lamento alternato: Andromaca porta la notizia della morte di Polissena, sacrificata sulla tomba di Achille. Anche lei desidera morire: dopo una vita trascorsa con Ettore, consacrata all’amore e alla fedeltà, ora deve unirsi al figlio del suo uccisore; Ecuba invece la esorta ad accettare, per il bene di suo figlio Astianatte.
Ma proprio su di lui si abbatte la furia nemica. Arriva Taltibio ad annunciare che su consiglio di Odisseo i Greci hanno deciso di gettare dalle mura di Troia il bambino, per impedire che diventi ciò che l’Ettore omerico si augurava: un guerriero più forte di suo padre. Se Andromaca si ribellerà, otterrà solo di non poterlo neppure seppellire: a lei non resta che proclamare l’ingiustizia, e maledire Elena, mentre Taltibio porta con sé il bambino domando a stento la compassione.
Il Coro rievoca adesso la prima distruzione di Troia, avvenuta per mano di Eracle e dei suoi amici, e l’amore che Zeus ebbe per Ganimede, ma che non ha salvato la città, come non è servito l’amore di Eos per il troiano Titone.
Entra Menelao, trionfante per avere ripreso Elena, che pensa di uccidere una volta arrivati in Grecia. Ecuba lo esorta a stare lontano dal fascino di lei. Elena chiede la sua sorte e, saputo di essere condannata, chiede di esporre le proprie ragioni. Ecuba vuole che Menelao la ascolti; poi sarà lei a confutarla – e Menelao accetta. Elena nega di avere colpe: le ha piuttosto Ecuba stessa, avendo partorito Paride, o il servo che non ha obbedito all’ordine di ucciderlo, nonostane i cattivi presagi. Se poi Paride, giudicando della bellezza delle dee, non avesse scelto Afrodite, la Grecia sarebbe stata sottomessa o conquistata dai Troiani, perché ciò gli avevano promesso, rispettivamente, Era ed Atena: Elena è dunque benemerita della Grecia. Ha lasciato Menelao perché vittima del potere di Afrodite, e non si può essere più forti degli dei. Dopo la morte di Paride, ha cercato di fuggire nel campo greco, ma è stata costretta con la forza a sposare Deifobo.
Ecuba ribatte innanzitutto che né Era, sposa di Zeus, né la vergine Atena possono avere investito fatto promesse così esorbitanti per una futile gara di bellezza; quanto ad Afrodite, è semplicemente il nome che gli uomini danno alla loro lussuria. Elena è stata affascinata da Paride e dalle ricchezze troiane, non rapita a forza, e il suo comportamento è sempre stato opportunistico. Anche ora, nel dolore di tutti, si presenta con una bellezza lussuosa e provocante. Menelao sentenzia a favore di Ecuba, e accede anche alla richiesta di non far salire Elena sulla sua stessa nave.
Il Coro, che ancora lamenta la caduta di Troia, abbandonata da Zeus, prega che venga distrutta da un fulmine la nave dove Elena si guarderà con frivolezza allo specchio.
Taltibio viene ad annunciare che Neottolemo e Andromaca sono partiti; si devono ora fare le esequie per Astianatte, che verrà sepolto, come ha chiesto Andromaca, nello scudo del padre. Ecuba stigmatizza la paura dei Greci e piange il nipote morto prematuramente, che le prometteva di rendere onore alla sua tomba; adesso, contro natura, avviene l’opposto. Sola consolazione, la poesia che tramanderà ai posteri il loro dolore. Quando Taltibio ordina di appiccare il fuoco a ciò che resta di Troia perché è giunto il momento di partire, Ecuba vorrebbe gettarsi nel fuoco, ma le viene impedito, e con un’ultima lamentazione sulla scomparsa della loro città le Troiane si avviano verso la schiavitù.

Elegia sulla sorte dei vinti e denuncia dell’inumanità e innaturalità della guerra: queste caratteristiche delle Troiane sono rappresentate con la più calda solidarietà attraverso la morte di un bambino, Astianatte, che per i Troiani incarna la speranza del passato (tanto da indurre Andromaca a farsi forza e accettare l’unione con Neottolemo), per i Greci il timore oscuro del pericolo e della rivincita. Dalla straziante protesta per la condanna a morte alla tristezza delle esequie, il tema attraversa tutta la tragedia.
Ma il dolore non è solo dei vinti: il paradosso di Cassandra, dal quale Taltibio si ritrae scandalizzato, è realtà vera e certa agli occhi dello spettatore che l’ha sentita sancire dall’accordo tra le due divinità già nemiche, Atena e Poseidone, e al quale era implacabilmente presente il mito della fine di Agamennone.
Si apre adesso l’abisso della miseria per i Greci, che già hanno pagato a caro prezzo la loro vittoria – dice Cassandra – con tanto sangue squallidamente e inutilmente versato. Il fatto che Cassandra parli da combattente, disposta a dare la propria vita per la rovina dell’odiato nemico (vv.404-5), mostra bene come l’estensione dell’angoscia e l’equiparazione delle sorti fra le due parti in causa approfondisca la divisione, ben lungi dal produrre affratellamento. Non lo produce neppure, a differenza che nell’Ecuba, la comunanza della concezione e dell’esercizio della giustizia che pure si esprime con grande limpidezza nel “processo” di Elena. La colpevole della guerra, colpevole anche di argomentazioni speciose, viene puntualmente controbattuta dal rigore morale e dalla persuasività autorevole con cui Ecuba richiama i fatti, i sintomi e i moventi.
E tuttavia l’esito del processo, certo in termini di diritto è ambiguo e insoddisfacente nei termini delle conseguenzed di fatto. Ecuba insiste, con apparente successo, perché Menelao non riporti Elena in Grecia sulla sua stessa nave. Ma nello stasimo successivo il Coro si augura il loro naufragio, manifestando dunque sfiducia sul fatto che le considerazioni morali abbiano la meglio sul fascino amoroso che Aristofane nella Lisistrata ricordava come esemplare. Anche la rappresentazione del libro quarto dell’Odissea non lasciava incertezze sullo scioglimento della vicenda.
In questo clima chiuso e feroce all’impulso sessuale è accreditata la stessa sinistra fatalità dell’impulso distruttivo: di entrambi è vittima la ragione dell’uomo.

Lisistrata

di Aristofane

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In un’assemblea delle donne di tutta la Grecia l’ateniese Lisistrata espone la sua idea di porre fine alla guerra imponendo agli uomini l’astinenza sessuale finché non abbiano stipulato la pace. La prima reazione delle altre donne è negativa, ma l’assenso della Spartana convince anche tutte le altre. Contemporaneamente le donne anziane occuperanno l’Acropoli per bloccare la politica di guerra. Viene pronunciato un solenne giuramento e delle grida in lontananza si capisce che l’occupazione dell’Acropoli è già avvenuta.
Entra infatti un coro di vecchi sdegnati, che minaccia di appiccare fuoco alle donne: gli si contrappone un coro femminile che porta l’acqua con cui bagna copiosamente gli avversari. Un commissario (probulos) cerca di arrestare Lisistrata, ma le donne hanno rapidamente la meglio su di lui e i suoi arcieri, per cui si intavola una discussione.
L’occupazione dell’Acropoli viene rivendicata come il mezzo necessario a controllare le risorse finanziarie che alimentano la guerra. Mille volte, dice Lisistrata, le donne hanno constatato la stoltezza degli uomini nelle maggiori decisioni politiche; adesso hanno deciso di sostituirsi a loro come soggetto politico, difendendo da sole le loro famiglie e la loro felicità. Esperte del lavoro della lana, tratteranno allo stesso modo lo stato, epurandolo dai malvagi e unendolo in salda unità. Gli uomini saranno invece ridotti al rango prima occupato dalle donne.
Nella parabasi donne e uomini si scontrano ancora con grande violenza verbale, e ampio uso, da parte degli uomini di doppisensi sessuali, come già faceva il commissario.
Ma Lisistrata è preoccupata per la tenuta dello sciopero sessuale: numerose donne cercano di disertare con il pretesto di accudire ai lavori domestici, un’altra si finge gravida, altre si lagnano di non riuscire a dormire sull’Acropoli. Dopo un altro contrasto dei due cori, una delle compagne di Lisistrata, Mirrina, riceve la visita del marito Cinesia, accompagnato dal loro figlio bambino. Anche attraverso di lui Cinesia cerca la riconciliazione, ma quando Mirrina insinua che non può certo concederglisi in presenza del bambino, questi viene subito mandato via. La concupiscenza di Cinesia viene sapientemente acuita attraverso un ossessivo succedersi di preparativi che dovrebbero rendere più comodo l’incontro: il letto, il guanciale, le coperte, i profumi. Poi quando il gioco è stato sfruttato ad usura, Mirrina se ne va precipitosamente raccomandando al marito di “votare per la pace” e lasciandolo alla solidarietà del Coro di vecchi.
Arriva l’araldo spartano, anche lui in stato di palese eccitazione, per trattare la pace, mentre finalmente i due cori si riconciliano. Arriva anche l’ambasceria di Sparta, e Lisistrata arringa le due parti ricordando la loro comunità culturale e i reciproci obblighi di gratitudine: Atene ha aiutato Sparta contro Messene, Sparta ha ridato la libertà agli Ateniesi dopo la fine della tirannide di Ippia. Ma è l’urgenza del sesso a dominare e a imporre finalmente la pace, che ricostituisce le comunità familiari: “il marito stia accanto alla moglie e la moglie accanto al marito” (vv.1275-6).

La più celebre e licenziosa delle commedie aristofanesche produce il cambiamento desiderato del mondo pubblico attraverso la sollecitazione violenta e irriducibile del desiderio maschile, che la lunga privazione rende monomaniacale e assoluto, ottenendo dagli uomini delle due potenze in guerra tra loro che accedano a quelle trattative di pace che gli uni o gli altri avevano sempre rifiutato, e che diversamente continuerebbero a rifiutare: lo dice non solo una logica inferenza dal comportamento passato ma anche la reazione delle due parti al commosso discorso panellenico in cui Lisistrata ricorda i legami “familiari” (xyngheneis) esistenti tra di loro e il loro passato solidale. Il più che essa riesce a ottenere è un assenso distratto, subito divorato dalle espressioni della concupiscenza che si indirizzano verso la personificazione della Diallaghé, la Tregua. Anche le rivendicazioni territoriali che vengono avanzate nella stessa sede sono stravolte in tutta una serie di calembour sessuali.
Tuttavia il lineare ricatto imposto dallo sciopero sessuale delle donne merita qualche attenzione nell’individuare l’ideologia che lo motiva e lo sostiene: se per gli uomini il sesso è il solo fine, e la pace e la sanità politica che per Aristofane le si identifica sono i soli strumenti per ottenerne il godimento, essendo per loro del tutto sforniti di interesse autonomo, l’opposto non è vero per le donne, le quali nel sesso ripongono invece un interesse profondo. Lo mostra la grande fatica con cui Lisistrata, col solo aiuto della spartana Lampitò, riesce a fare accettare il suo progetto – possibile solo se messo in atto dall’intera collettività femminile – superando la sgomenta titubanza delle altre donne; e poi ancora più la crisi che il progetto attraversa, quando molte donne subiscono la tentazione di rinunciarvi, e la naive osservazione di Cinesia alla moglie: “mi fai star male e soffri anche tu” (vv.892-3).
La divergenza che si apre tra le due parti ed è necessaria e funzionale a costituire l’azione comica è che gli uomini (come pure le donne prima di essere convinte allo sciopero e nel momento in cui sembrano non riuscire a mantenerlo) hanno come loro obiettivo un soddisfacimento immediato del desiderio, laddove il progetto vincente è quello capace di rinunciarvi tatticamente per affermarlo strategicamente, o se si preferisce di usarlo come mezzo perseguendolo come fine. Solo all’interno di questo progetto risulta chiaro come la guerra, che allontana gli uomini da casa e fa dormire le giovani spose (vv.591-3) sia naturaliter nemica dell’eros, e come dunque quest’ultimo debba e possa ambire ad essere non più un intervallo strappato alla ferocia interumana, ma il centro di un universo solidale e armonico.
Richiedendo il controllo di sé e dell’altro, questo progetto è dunque ben lontano dal ridurre il rapporto tra i sessi alla rozzezza dell’impulso: al contrario, vi si riconosce una superba costruzione intellettuale, dove il riso si scatena alle spese degli uomini non tanto per la loro eccitazione insoddisfatta, quanto per la stupidità politica che li ha condotti a quel punto. Nella Lisistrata infatti la guerra appare non più nelle forme dell’entusiasmo aggressivo che animava il Lamaco degli Acarnesi, ma come ottusa e stanca coazione a ripetere, qualcosa che si fa per l’incapacità di trovare una via alternativa di salvazione (v.497): il probulo che si sente impegnato a impedire alle donne di impadronirsi del tesoro sull’acropoli perché quel denaro “serve per fare la guerra” (v.496), ha lasciato passare senza obiezioni l’affermazione opposta di Lisistrata, che il denaro al contrario sia il fine della guerra, ciò che permette ai profittatori di pescare nel torbido. Cedendo l’acropoli alle donne – nell’operazione parallela e simbolicamente equivalente allo sciopero sessuale – questi uomini certificano la loro incapacità di fare politica e la loro fatale riduzione al ruolo passivo occupato istituzionalmente dalle donne. Si ricorderà forse che quest’ultima era la fobia di Creonte nell’Antigone.