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Le Danaidi sono ancora lì, nella pianura di ArgoLe Danaidi sono ancora lì, nella pianura di Argo

da | Apr 20, 2015

LE SUPPLICI, UNA STRATEGIA DI ESCHILO

di Gianni Bonina

Diversamente da oggi, una richiesta di asilo politico da parte di esuli stranieri era considerata nell’antica Grecia sotto l’aspetto del peccato contro Zeus, protettore dei supplici, e sotto quello del reato perché violava un preciso principio di diritto internazionale per il quale al profugo non può essere negato, se non per fatti di sangue, il beneficio politico dell’ospitalità. Le cinquanta Danaidi arrivano dall’Egitto sulla costa di Argo con il titolo di profughe perché perseguitate da altrettanti uomini che le pretendono come mogli contro la loro volontà. Eschilo non ci dice le ragioni del rifiuto, così facendo delle Danaidi il simbolo di una coscienza all’autodeterminazione di tipo proto-femminista che si leva non solo contro pretendenti sgraditi responsabili di stalking ma anche contro ogni forma di predominio maschile sulla donna.

Ma rimane la debolezza della tesi: trattandosi di un caso che non involge contrasti istituzionali, motivi di dissidenza, scontri politici interni a un Paese peraltro straniero, riguardando la fuga delle Danaidi una questione tutto sommato privata, la città di Argo potrebbe non sentirsi chiamata, per “contaminazione”, a rispondere davanti a Zeus della colpa di avere respinto delle supplici destinate per un accordo tra il loro padre e quello dei loro cugini-fidanzati a prenderli per mariti.

Il mito peraltro racconta un’altra storia. Danao, il padre, contende al fratello Egitto il trono della terra del Nilo finché arrivano a convenire un matrimonio di massa tra le figlie del primo e quelli del secondo; senonché Danao, temendo un inganno, ben poco chiaro invero, organizza la fuga delle figlie ad Argo e le precede riuscendo a conquistare il titolo di signore della città, che è autorità diversa da quella di re. I cugini pretendenti arrivano ad Argo non solo per prendere con la forza le Danaidi ma anche, su ordine del padre Egitto, per uccidere lo zio. Che è dunque un atimos, cioè un condannato a morte che chiunque può giustiziare. Ecco perché re Pelasgo gli assegna una scorta armata, la quale poi diventa – per alcuni studiosi – il secondo coro che si aggiunge a quello delle Danaidi e che leva invocazioni non più ad Artemide, dea vergine e figlia di Zeus, ma ad Afrodite, favorevole al congiungimento carnale, quindi al matrimonio anche tra consanguinei. Per altri invece il secondo coro è costituito dalle ancelle delle Danaidi, a maggior ragione perché appare forzato immaginare uomini armati posti in adorazione di Afrodite e inclini a celebrare l’amore.

Il regista Moni Ovadia ha risolto la questione del secondo coro, e con essa anche il ruolo del primo, introducendo una figura che nel testo eschileo non c’è: quella del messaggero, che in questo caso è più esattamente un cantastorie: che appunto canta e racconta, perlopiù in siciliano, l’intera vicenda così da tenere il pubblico avvertito.

Ma perché Eschilo recupera il mito di Danao, lo rivolge non poco e propone la questione politica dell’ospitalità? Intanto occorre chiarire che noi traduciamo “supplici” un termine greco, ikates, che soltanto in tarda età prese questa accezione mentre in origine indicava, soprattutto in Omero, chi chiede di essere purificato dopo aver commesso un omicidio, esattamente quello che chiederanno le Danaidi dopo aver ucciso i loro mariti nel prosieguo della tetralogia che non ci è pervenuta. Ciò è tanto più vero se si pensa che attributi dei supplici sono i rami d’ulivo avvolti in bende di lana, dove l’ulivo è simbolo della pace e la lana allegoria della barba o del mento. E qual è il gesto tipico del supplice che porta il klados? Proprio di toccare la barba e le ginocchia di chi è destinatario dell’impetrazione. “Appendo alle tue ginocchia il mio corpo come ramo d’ulivo” è frase di Euripide che più volte riprende nella sua opera, al pari di Eschilo come di Sofocle, in linea dunque di coerenza, la fisiologia del supplice.

Chiarita la portata della supplica, che vista nella sua accezione originaria tradisce una colpa commessa per la quale si chiede indulgenza e protezione, cosa che mette in capo alle Danaidi una responsabilità di cui emendarsi davanti agli argivi (quale colpa? quella di essere fuggite violando un accordo di guerra?), ci interessa vedere Eschilo affidarsi a una trama così improbabile per montare in realtà ben altro scenario: quello che vede Temistocle ostracizzato nel 470 e ancora esiliato quando la tragedia, sette anni dopo, viene messa in scena. Temistocle, che come pochi altri ha diviso gli stessi greci tra estimatori e detrattori, è stato un esule anche ad Argo ed Eschilo ne propugna il ritorno ad Atene e quindi il perdono, essendo un supplice che si è macchiato di una colpa che ritiene ormai da dovere condonargli. Non da lontano Temistocle ricorda in effetti le Danaidi quando esse vengono preparate dal padre ad assumere una condotta adeguata davanti agli argivi. Temistocle è stato infatti alla corte di Admeto e, non trovandolo, si è rivolto alla moglie la quale gli ha suggerito ogni comportamento da tenere di fronte al marito per muoverlo da re in suo favore. Eschilo parla dunque delle Danaidi per ricordare Temistocle agli ateniesi, che però non perdoneranno mai l’uomo in rapporti con gli spartani e i persiani che morirà profugo e pellegrino. Nella frase che dice Danao di aver avuto la scorta per non essere ucciso a sorpresa da un colpo di lancia si maschera perciò la preoccupazione di Eschilo per Temistocle, davvero passibile di un agguato solitario, mentre Danao deve guardarsi soprattutto, godendo della qualità di “signore”, dell’esercito egiziano e non di un singolo sicario.

La strategia di Eschilo è però assai più vasta e legata alla vita ateniese, contrariamente alla tesi generale secondo cui è la commedia che si occupa dell’attualità mentre la tragedia guarda al mito o alla storia. Quando Pelasgo si rifiuta di prendere da solo la decisione se accogliere in città le Danaidi e pone perciò la condizione che sia la città a votare, in realtà adombra l’intento politico di Eschilo inteso a esautorare il restrittivo Aeropago a favore della più aperta Assemblea popolare quanto soprattutto alle questioni di politica estera (quelle che riguardano appunto Temistocle) e sostenere una riforma che solo un anno dopo costerà però la vita al suo artefice, Efialte, ucciso in un attentato. Eschilo trova uno snodo che appare di tipo squisitamente narrativo per affrontare la questione del tutto originale del voto popolare: pur prese dall’ansia del verdetto del demo, le Danaidi chiedono infatti al padre di ritorno dal foro particolari non tanto sull’esito favorevole quanto sui meccanismi del voto: “Come si è svolto il voto, come si è orientata la maggioranza dell’assemblea?”. Eschilo non dà peso al fatto che tanto interesse venga da fanciulle prese da ben altri patemi e del tutto digiune di politica, che peraltro riguarda un Paese per loro straniero. Gli preme spiegare piuttosto cos’è la democrazia e lo fa ricorrendo a una immagine fortemente icastica perché possa riflettere la potenza dell’evento: l’aria che vibra per l’univoca levata in alto delle mani del demo a designare la volontà popolare di approvazione della proposta di Pelasgo. Le mani sono il signum individuationis, lo strumento con cui esprimere la partecipazione alla polis, cosicché la frase eschilea che riporta “demou kratousa keir” indica la mano posta a fianco di una parola che in questa su prima apparizione assoluta (al di là di alcune teorie secondo cui furono Erodoto e Tucidide a usare per primi il termine, senonché Le Supplici sono perlomeno del 463 se non ancora più tarde) troviamo disunita perché sta per “la mano vincente del popolo”, dove quindi la mano prevale sul popolo come forza semantica. Poco più avanti ritroviamo quasi la stessa espressione, “demo-praktos”, cioè “fatto dal popolo”, che però non designa un potere ma si riferisce all’atto esecutivo opera del demo. Con la mano dunque si tocca la barba dell’ospite per chiedere asilo e con la stessa mano, la destra, si vota per concedere asilo. Pelasgo si è rivolto alle mani destre del demo rimettendosi al numero di quante fossero state levate in aria, sebbene il coro delegittimi l’assemblea: “Tu sei il consiglio, capo non soggetto a controlli”: una visione della politica che ritroviamo oltre vent’anni dopo in Antigone di Sofocle quando re Creonte dice al figlio: “Sarà la città a ordinarmi ciò che devo fare? Sono io o un altro che deve comandare su questa terra?”. Tutto il contrario: con un regresso dal primo germoglio della democrazia alla nuova recrudescenza della tirannide che dà conto di quanto incoerente e intermittente sia la linea di crescita della democrazia come la conosciamo noi. In Eschilo la città è un organismo vivente e decisionale, in Sofocle torna ad essere un appannaggio di chi la possiede. Quando il coro di Argo si esprime per l’inutilità del voto, Pelasgo risponde con parole irricevibili a Tebe: “Non posso permettere che un giorno il popolo dica che per onorare degli ospiti ho rovinato la città”. Il bene della città è dunque superiore al dovere dell’ospitalità che è di per sé sacro. Il mancato soccorso dei supplici e addirittura il conseguente peccato contro Zeus recedono entrambi di fronte alla sovranità del demo.

Sono cose che le Danaidi non possono capire. Venendo da un regime istituzionale monocratico, hanno di che sorprendersi quando sentono Pelasgo ricusarsi da sé e delegare una indistinta massa di persone che chissà come possano materialmente raggiungere una decisione. Sconoscono l’idea di maggioranza che implica una isonomia (pari diritti politici) nella quale è insito un criterio di uguaglianza che pure è in insanabile contrasto con il soffocante sistema greco basato sugli schiavi e i meteci. Ma conoscono la differenza tra le due forme di giustizia impersonate da Dike e da Themis. Dike è la giustizia processuale, quella umana che di caso in caso è frutto di decisioni soggettive. Themis è invece la giustizia assoluta, inappellabile, divina, quella che nell’Agamennone Eschilo pone a giustificazione della decisione del re di sacrificare Ifigenia: “Così reclama Themis e così sia”. Le Danaidi conoscono la differenza perché non rispondono a Pelasgo che chiede loro se è Themis a non volere il matrimonio con i cugini mentre invocano Dike perché il re la prenda come sua alleata. Indicando Themis come artefice e nume del rifiuto alle nozze non lascerebbero a Pelasgo (che proprio a questo fine si informa con loro) la possibilità di rivolgersi al popolo, perché Themis non può essere contraddetta. Questo significa che, sebbene straniere (“Le divinità del Nilo, quelle rispetto” grida l’Araldo), si sentono vicine ad Argo sicché per prima cosa, appena sbarcate, anziché alla città rivolgono le loro preghiere agli dèi della città, invocando Zeus e Artemide.

Sono apostate forse? Opportuniste in vena di immediate conversioni? Si dicono “nero fiore”, ammettono di avere il volto scurito e di indossare lino sidonio, ma non esitano a identificarsi nel culto greco. Per questa via ottengono la solidarietà di Pelasgo, che per aiutarle deve riconoscerle come simili e ciò esse si dichiarano proclamandosi discendenti di Io, la ninfa argiva preda di Zeus e per questo punita da Era finché era finita in Egitto dove aveva dato alla luce il figlio olimpico, Epafo. Essendo della stessa stirpe argiva, le donne egiziane adoratrici di Iside-Io sono dunque ammesse ad Argo, così segnando un profondo discrimine che, se può superare l’aspetto della pelle e il modo di vestire africano (comunque una grande conquista razziale questa soltanto), si fonda sul genos, sull’identità dell’ascendenza lararia.

Le Supplici di Ovadia insistono sul tema dell’accoglienza e della solidarietà e diventano un inno alla democrazia ospitale e occidentale che oggi si è affermata anche in Italia ma è minacciata da continui assalti. Non è cambiato granché dal tempo di Eschilo e Danaidi sono ancora lì, fuori dalla città, in attesa di essere accolte. Da cinquanta sono diventate migliaia.

LE SUPPLICI, UNA STRATEGIA DI ESCHILO

di Gianni Bonina

Diversamente da oggi, una richiesta di asilo politico da parte di esuli stranieri era considerata nell’antica Grecia sotto l’aspetto del peccato contro Zeus, protettore dei supplici, e sotto quello del reato perché violava un preciso principio di diritto internazionale per il quale al profugo non può essere negato, se non per fatti di sangue, il beneficio politico dell’ospitalità. Le cinquanta Danaidi che arrivano dall’Egitto sulla costa di Argo con il titolo di profughe perché perseguitate da altrettanti uomini che le pretendono come mogli contro la loro volontà. Eschilo non ci dice le ragioni del rifiuto, così facendo delle Danaidi il simbolo di una coscienza all’autodeterminazione di tipo proto-femminista che si leva non solo contro pretendenti sgraditi responsabili di stalking ma anche contro ogni forma di predominio maschile sulla donna.

Ma rimane la debolezza della tesi: trattandosi di un caso che non involge contrasti istituzionali, motivi di dissidenza, scontri politici interni a un Paese peraltro straniero, riguardando la fuga delle Danaidi una questione tutto sommato privata, la città di Argo potrebbe non sentirsi chiamata, per “contaminazione”, a rispondere davanti a Zeus della colpa di avere respinto delle supplici destinate per un accordo tra il loro padre e quello dei loro cugini-fidanzati a prenderli per mariti.

Il mito peraltro racconta un’altra storia. Danao, il padre, contende al fratello Egitto il trono della terra del Nilo finché arrivano a convenire un matrimonio di massa tra le figlie del primo e quelli del secondo; senonché Danao, temendo un inganno, ben poco chiaro invero, organizza la fuga delle figlie ad Argo e le precede riuscendo a conquistare il titolo di signore della città, che è autorità diversa da quella di re. I cugini pretendenti arrivano ad Argo non solo per prendere con la forza le Danaidi ma anche, su ordine del padre Egitto, per uccidere lo zio. Che è dunque un atimos, cioè un condannato a morte che chiunque può giustiziare. Ecco perché re Pelasgo gli assegna una scorta armata, la quale poi diventa – per alcuni studiosi – il secondo coro che si aggiunge a quello delle Danaidi e che leva invocazioni non più ad Artemide, dea vergine e figlia di Zeus, ma ad Afrodite, favorevole al congiungimento carnale, quindi al matrimonio anche tra consanguinei. Per altri invece il secondo coro è costituito dalle ancelle delle Danaidi, a maggior ragione perché appare forzato immaginare uomini armati posti in adorazione di Afrodite e inclini a celebrare l’amore.

Il regista Moni Ovadia ha risolto la questione del secondo coro, e con essa anche il ruolo del primo, introducendo una figura che nel testo eschileo non c’è: quella del messaggero, che in questo caso è più esattamente un cantastorie: che appunto canta e racconta, perlopiù in siciliano, l’intera vicenda così da tenere il pubblico avvertito.

Ma perché Eschilo recupera il mito di Danao, lo rivolge non poco e propone la questione politica dell’ospitalità? Intanto occorre chiarire che noi traduciamo “supplici” un termine greco, ikates, che soltanto in tarda età prese questa accezione mentre in origine indicava, soprattutto in Omero, chi chiede di essere purificato dopo aver commesso un omicidio, esattamente quello che chiederanno le Danaidi dopo aver ucciso i loro mariti nel prosieguo della tetralogia che non ci è pervenuta. Ciò è tanto più vero se si pensa che attributi dei supplici sono i rami d’ulivo avvolti in bende di lana, dove l’ulivo è simbolo della pace e la lana allegoria della barba o del mento. E qual è il gesto tipico del supplice che porta il klados? Proprio di toccare la barba e le ginocchia di chi è destinatario dell’impetrazione. “Appendo alle tue ginocchia il mio corpo come ramo d’ulivo” è frase di Euripide che più volte riprende nella sua opera, al pari di Eschilo come di Sofocle, in linea dunque di coerenza, la fisiologia del supplice.

Chiarita la portata della supplica, che vista nella sua accezione originaria tradisce una colpa commessa per la quale si chiede indulgenza e protezione, cosa che mette in capo alle Danaidi una responsabilità di cui emendarsi davanti agli argivi (quale colpa? quella di essere fuggite violando un accordo di guerra?), ci interessa vedere Eschilo affidarsi a una trama così improbabile per montare in realtà ben altro scenario: quello che vede Temistocle ostracizzato nel 470 e ancora esiliato quando la tragedia, sette anni dopo, viene messa in scena. Temistocle, che come pochi altri ha diviso gli stessi greci tra estimatori e detrattori, è stato un esule anche ad Argo ed Eschilo ne propugna il ritorno ad Atene e quindi il perdono, essendo un supplice che si è macchiato di una colpa che ritiene ormai da dovere condonargli. Non da lontano Temistocle ricorda in effetti le Danaidi quando esse vengono preparate dal padre ad assumere una condotta adeguata davanti agli argivi. Temistocle è stato infatti alla corte di Admeto e, non trovandolo, si è rivolto alla moglie la quale gli ha suggerito ogni comportamento da tenere di fronte al marito per muoverlo da re in suo favore. Eschilo parla dunque delle Danaidi per ricordare Temistocle agli ateniesi, che però non perdoneranno mai l’uomo in rapporti con gli spartani e i persiani che morirà profugo e pellegrino. Nella frase che dice Danao di aver avuto la scorta per non essere ucciso a sorpresa da un colpo di lancia si maschera perciò la preoccupazione di Eschilo per Temistocle, davvero passibile di un agguato solitario, mentre Danao deve guardarsi soprattutto, godendo della qualità di “signore”, dell’esercito egiziano e non di un singolo sicario.

La strategia di Eschilo è però assai più vasta e legata alla vita ateniese, contrariamente alla tesi generale secondo cui è la commedia che si occupa dell’attualità mentre la tragedia guarda al mito o alla storia. Quando Pelasgo si rifiuta di prendere da solo la decisione se accogliere in città le Danaidi e pone perciò la condizione che sia la città a votare, in realtà adombra l’intento politico di Eschilo inteso a esautorare il restrittivo Aeropago a favore della più aperta Assemblea popolare quanto soprattutto alle questioni di politica estera (quelle che riguardano appunto Temistocle) e sostenere una riforma che solo un anno dopo costerà però la vita al suo artefice, Efialte, ucciso in un attentato. Eschilo trova uno snodo che appare di tipo squisitamente narrativo per affrontare la questione del tutto originale del voto popolare: pur prese dall’ansia del verdetto del demo, le Danaidi chiedono infatti al padre di ritorno dal foro particolari non tanto sull’esito favorevole quanto sui meccanismi del voto: “Come si è svolto il voto, come si è orientata la maggioranza dell’assemblea?”. Eschilo non dà peso al fatto che tanto interesse venga da fanciulle prese da ben altri patemi e del tutto digiune di politica, che peraltro riguarda un Paese per loro straniero. Gli preme spiegare piuttosto cos’è la democrazia e lo fa ricorrendo a una immagine fortemente icastica perché possa riflettere la potenza dell’evento: l’aria che vibra per l’univoca levata in alto delle mani del demo a designare la volontà popolare di approvazione della proposta di Pelasgo. Le mani sono il signum individuationis, lo strumento con cui esprimere la partecipazione alla polis, cosicché la frase eschilea che riporta “demou kratousa keir” indica la mano posta a fianco di una parola che in questa su prima apparizione assoluta (al di là di alcune teorie secondo cui furono Erodoto e Tucidide a usare per primi il termine, senonché Le Supplici sono perlomeno del 463 se non ancora più tarde) troviamo disunita perché sta per “la mano vincente del popolo”, dove quindi la mano prevale sul popolo come forza semantica. Poco più avanti ritroviamo quasi la stessa espressione, “demo-praktos”, cioè “fatto dal popolo”, che però non designa un potere ma si riferisce all’atto esecutivo opera del demo. Con la mano dunque si tocca la barba dell’ospite per chiedere asilo e con la stessa mano, la destra, si vota per concedere asilo. Pelasgo si è rivolto alle mani destre del demo rimettendosi al numero di quante fossero state levate in aria, sebbene il coro delegittimi l’assemblea: “Tu sei il consiglio, capo non soggetto a controlli”: una visione della politica che ritroviamo oltre vent’anni dopo in Antigone di Sofocle quando re Creonte dice al figlio: “Sarà la città a ordinarmi ciò che devo fare? Sono io o un altro che deve comandare su questa terra?”. Tutto il contrario: con un regresso dal primo germoglio della democrazia alla nuova recrudescenza della tirannide che dà conto di quanto incoerente e intermittente sia la linea di crescita della democrazia come la conosciamo noi. In Eschilo la città è un organismo vivente e decisionale, in Sofocle torna ad essere un appannaggio di chi la possiede. Quando il coro di Argo si esprime per l’inutilità del voto, Pelasgo risponde con parole irricevibili a Tebe: “Non posso permettere che un giorno il popolo dica che per onorare degli ospiti ho rovinato la città”. Il bene della città è dunque superiore al dovere dell’ospitalità che è di per sé sacro. Il mancato soccorso dei supplici e addirittura il conseguente peccato contro Zeus recedono entrambi di fronte alla sovranità del demo.

Sono cose che le Danaidi non possono capire. Venendo da un regime istituzionale monocratico, hanno di che sorprendersi quando sentono Pelasgo ricusarsi da sé e delegare una indistinta massa di persone che chissà come possano materialmente raggiungere una decisione. Sconoscono l’idea di maggioranza che implica una isonomia (pari diritti politici) nella quale è insito un criterio di uguaglianza che pure è in insanabile contrasto con il soffocante sistema greco basato sugli schiavi e i meteci. Ma conoscono la differenza tra le due forme di giustizia impersonate da Dike e da Themis. Dike è la giustizia processuale, quella umana che di caso in caso è frutto di decisioni soggettive. Themis è invece la giustizia assoluta, inappellabile, divina, quella che nell’Agamennone Eschilo pone a giustificazione della decisione del re di sacrificare Ifigenia: “Così reclama Themis e così sia”. Le Danaidi conoscono la differenza perché non rispondono a Pelasgo che chiede loro se è Themis a non volere il matrimonio con i cugini mentre invocano Dike perché il re la prenda come sua alleata. Indicando Themis come artefice e nume del rifiuto alle nozze non lascerebbero a Pelasgo (che proprio a questo fine si informa con loro) la possibilità di rivolgersi al popolo, perché Themis non può essere contraddetta. Questo significa che, sebbene straniere (“Le divinità del Nilo, quelle rispetto” grida l’Araldo), si sentono vicine ad Argo sicché per prima cosa, appena sbarcate, anziché alla città rivolgono le loro preghiere agli dèi della città, invocando Zeus e Artemide.

Sono apostate forse? Opportuniste in vena di immediate conversioni? Si dicono “nero fiore”, ammettono di avere il volto scurito e di indossare lino sidonio, ma non esitano a identificarsi nel culto greco. Per questa via ottengono la solidarietà di Pelasgo, che per aiutarle deve riconoscerle come simili e ciò esse si dichiarano proclamandosi discendenti di Io, la ninfa argiva preda di Zeus e per questo punita da Era finché era finita in Egitto dove aveva dato alla luce il figlio olimpico, Epafo. Essendo della stessa stirpe argiva, le donne egiziane adoratrici di Iside-Io sono dunque ammesse ad Argo, così segnando un profondo discrimine che, se può superare l’aspetto della pelle e il modo di vestire africano (comunque una grande conquista razziale questa soltanto), si fonda sul genos, sull’identità dell’ascendenza lararia.

Le Supplici di Ovadia insistono sul tema dell’accoglienza e della solidarietà e diventano un inno alla democrazia ospitale e occidentale che oggi si è affermata anche in Italia ma è minacciata da continui assalti. Non è cambiato granché dal tempo di Eschilo e Danaidi sono ancora lì, fuori dalla città, in attesa di essere accolte. Da cinquanta sono diventate migliaia.

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